“Il Giardino dei Ciliegi”, un sempreverde Čechov

Čechov “è” il Giardino dei Ciliegi? Certamente sì, leggendo con attenzione la sua biografia e congiungendo astralmente la data della sua morte del luglio 1904 con quella della prima rappresentazione del suo capolavoro nel gennaio di quello stesso anno.

L’opera è attualmente rappresentata fino all’8 marzo al Teatro Argentina di Roma, per la regia di Alessandro Serra, che offre la sua personalissima interpretazione del dramma e dei suoi contenuti, assistito da un cast di assoluto livello. Ed è lo scenario a qualificare la sua concezione intellettuale fin dall’apertura di sipario. Le tre pareti si identificano in realtà con gli immensi lastroni verticali e piatti di pietra cangiante che ricordano le Scogliere di Dover, a picco su di un mare inaccessibile da terra, profondo e tumultuoso, in cui cioè i contenuti etici, sociali e sentimentali giacciono su di un fondale irraggiungibile. Saranno poi i maremoti della Storia a portare in superficie quei substrati lapidei con i suoi derivati socio-politici, in ordine cronologico, della fine dei servi della gleba e dell’impero degli Zar, seguita dall’avvento della Rivoluzione d’Ottobre, che spazzerà al contempo la nobiltà russa e il suo succedaneo di una borghesia frenetica, affamata e desiderosa di riscatto. E qui entra in gioco la preveggenza di Čechov sull’approssimarsi di questo futuro buio che dissolverà un millennio di tradizione contadina, assieme ai rituali parassitari della grande proprietà terriera, con le sue languide nostalgie, i suoi riti lentissimi e quel dolce far niente di padroni che traggono la loro energia vitale dallo sfruttamento di una massa sterminata di schiavi senza diritti e visibilità.

Nei personaggi del Giardino sono incardinati, in fondo, gli eventi drammatici di un futuro prossimo venturo. Il sentimento nostalgico e improduttivo, e perciò bello per definizione, è rappresentato dai fratelli Leonid Andreevič Gaiev e Ljubov’ Andreevna Ranevskaja (Ljuba), proprietari falliti e indebitati del Giardino, che non hanno alcuna considerazione o coscienza della loro situazione economica reale, perché illusi da una fede cieca che “qualcosa accadrà”, per cui la loro proprietà verrà senza dubbio alcuno salvata dall’intervento di un parente ricco, in grado di riacquistarla all’imminente asta giudiziaria a copertura dell’ipoteca e del debito contratto con i creditori. Ljuba, che ha già dilapidato il suo patrimonio per inseguire a Parigi il suo amante dopo aver perso cinque anni prima il figlio Griša, annegato bambino nel fiume che scorre accanto alla proprietà, continua a non rendersi conto della sua condizione di indigente donando una moneta d’oro a uno sbandato che appare improvvisamente in scena, mentre tutt’intorno si intrecciano gli intrighi attorno alla figura vincente del mercante Lopachin per dargli in sposa la figlia adottiva di Ljuba, Varja, la vera amministratrice della proprietà, in assenza della madre e dello zio.

L’amara vendetta di Lopachin, figlio di poverissimi contadini che furono servi senza diritti del Giardino, si celebrerà tristemente quando la famiglia verrà a conoscenza che sarà stato lui a comprare all’asta l’anima di quei proprietari terrieri falliti e incoscienti. Ma, questa neo borghesia arricchita, ebbra di desiderio di riscatto, avrà durata effimera, come fa dire Čechov al suo eterno studente Trofimov, già tutore di Griša, in cui traspare il ragionamento marxiano sul proletario e sulla lotta di classe, che sarà poi il patrimonio leninista della Rivoluzione d’Ottobre. E saranno proprio quelle pareti altissime e inespressive a sintetizzare il fallimento di tutti i protagonisti del dramma, con un Lopachin che solleva palate di terra dissodata per scagliarle furiosamente contro quel muro, simbolo di uno sradicamento emotivo che lascia spazio soltanto a un futuro vuoto, in cui tutti fuggono da un passato senza ritorno e senza speranza. Perché, poi, la vita è tutto un minuetto di fantasmi, di Altri estraniati dal Sé, che danzano con le sedie di un arredo in dissolvenza come le loro stesse vite in dialoghi senza empatia, con un direttore d’orchestra occulto, l’anziano Firs, che condensa nella sua sofferente figura tutte le virtù che il mondo abbandonerà molto presto, come la fedeltà assoluta alla terra e ai suoi padroni, la saggezza della tradizione profonda della Santa Madre Russia, che inveisce contro quella forza destabilizzatrice e rivoluzionaria di una gioventù accecata dall’ideologia.

Aggiornato il 28 febbraio 2020 alle ore 14:17