Devo a mio padre l’amore per Odisseo, Ulisse principe di Itaca, colui che prese la fortificata Ilio con l’astuzia e non con le armi.

Ulisse dall’arco ronzante, il vagabondo che discese nell’Ade, amante di maghe e di ninfe immortali, il viaggiatore eterno che sfidò il canto ammaliante delle Sirene, il giocoliere scaltro che accecò il ciclope che non onorò la legge sacra dell’ospitalità. È Ulisse il simbolo dell’uomo che va in cerca della Conoscenza ultima, dell’avventura che lo spinge sempre un po’ più in là, al limite del vuoto e oltre quelle colonne d’Ercole che conducono ad altri mondi. Odisseo che miete la propria sanguinosa vendetta su coloro che hanno cercato di usurpare il suo trono e la sua sposa è il mito che non perisce e che continua dal più remoto passato sino al nostro futuro perché senza Ulisse l’uomo sarebbe stato diverso, non avrebbe avuto i sogni e le esplorazioni che hanno forgiato l’Occidente e non avremmo avuto l’arte e le meraviglie dell’età classica, di quella medievale, della Rinascenza né dei tempi più recenti. Persino l’Ulisse di James Joyce non sarebbe mai esistito, ma fortunatamente un cantore cieco che conosciamo come Omero, ci ha donato una delle più splendide leggende dell’umanità, che ritorna in questi giorni in una grande e originale mostra, molto ricca nella propria offerta al pubblico, ai Musei di San Domenico di Forlì.

Ulisse. L’arte e il mito resterà aperta sino al 21 giugno prossimo e condurrà i visitatori lungo le rotte perdute negli oceani del tempo e sui mari del Fato, lungo le quali veleggiò Odisseo, in un viaggio fantastico, in un mosaico scintillante di arte pittorica e di scultura, ma anche di libri, suppellettili e oggetti d’arredo, in modo da dare una visione il più completa possibile di un mito ancestrale e fondante del nostro mondo. Sono i mille volti del più enigmatico, e spesso anche simpatico, degli eroi, perché Ulisse è in fondo, anche se un semidio, il prototipo dell’uomo che osa con le proprie forza andare là dove nessuno mai aveva avuto il coraggio di avventurarsi prima. Egli vince la paura dell’ignoto con l’intelligenza ed il coraggio, non con la forza bruta come Achille.

L’imponente mostra forlivese è stata realizzata in virtù di importanti prestiti giunti sia da musei italiani, sia internazionali, con un sontuoso e pregevole allestimento supportato in gran parte dalla Cassa dei Risparmi di Forlì. Un buon modo di reinvestire denaro in operazioni artistiche d’alto profilo dunque, a dimostrazione di come l’economia abbia un’importanza capitale nella Cultura, coadiuvato dall’attenta opera dei cinque curatori: Gianfranco Brunelli, Francesco Leone, Fernando Mazzocca, Fabrizio Paolucci e Paola Refice.

Nelle dieci sale, tra le oltre duecentocinquanta opere uniche che si possono vedere, vi sono la Penelope dei Musei Vaticani e l’Afrodite callipigia proveniente dal Museo archeologico di Napoli, ma anche un arazzo secentesco, prestito del Quirinale, il tutto sostenuto dall’inconfondibile voce di Vittorio Gassman che recita ovviamente il XXVI canto dell’Inferno di Dante. Nella navata centrale, poi, dell’ex chiesa di San Giacomo, come emersa dalle nebbie dei secoli, campeggia il relitto della più antica nave greca mai ritrovata e qui esposta per la prima volta, proveniente dal Museo archeologico di Gela insieme a una rutilante danza di anfore e di statue, sculture e dipinti delle antiche civiltà mediterranee che sfumano nelle miniature policrome di un Medio Evo fantastico, lungo l’aureo Rinascimento con le sue magie e i suoi incanti, tra Circe, Calipso e la fedele Penelope esempio d’irraggiungibile fedeltà coniugale.

Il fortunato e meravigliato visitatore, avrà così modo d’illuminarsi nel cuore alla vista delle tele di Domenico di Jacopo di Pace, detto il Beccafumi e di quelle del Guercino e di Dosso Dossi, al secolo Giovanni Francesco Barbieri, di Johan Heinrich Füssli così romanticamente drammatico. Immergersi nell’immaginario ridondante di simboli dell’arte preraffaellita come la Circe invidiosa di John William Waterhouse, nel Simbolismo e nel Novecento metafisico creato da Savinio e da suo fratello Giorgio De Chirico, per approdare infine – è il caso di dirlo – alle isole felici degli anni Trenta, dipinte da Corrado Cagli e da Mario Sironi per concludersi, in un eterno ritorno, in un Uroboro splendente e onusto di simboli, nell’affascinante Testa di Ulisse proveniente dal Museo archeologico di Sperlonga, i cui occhi vuoti sono quelli di un uomo ha osato volgere lo sguardo là, oltre i limiti stessi dello spazio e del tempo, e fissarlo sull’infinito che è nella propria anima irrequieta.

Aggiornato il 18 febbraio 2020 alle ore 12:30