Novantanove anni fa, l’8 gennaio 1921 per la precisione, nasceva Leonardo Sciascia.

Al netto di ogni celebrazione – che il più antiretorico degli scrittori italiani del Novecento avrebbe liquidato con un sorriso di tre quarti avvolto nel fumo dell’ennesima sigaretta – l’evenienza ci invita ad una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che la sua opera ha avuto nella letteratura italiana ed europea e, se possibile ancor più, nella vita politica e civile del nostro Paese.

Confesso in premessa un pregiudizio, sia pure positivo. Ho nei confronti di Sciascia un debito, ingente quanto inestinguibile, per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica.

Non intendo certo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Quando ruppi, dolorosamente, con la sinistra per il persistere – ed anzi il conclamarsi nell’alleanza giallorossa – all’interno della stessa di una componente giacobina, non ho potuto non pensare alla sua di “rottura”, a lungo maturata fra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 e il “compromesso storico”, ma che esplose di fronte alla chiara svolta repressiva dello Stato prima, durante e dopo il sequestro Moro. Ancora, quando in tutte le occasioni in cui ci si permette di denunciare l’ingiustizia ottusa dell’onnipresente mantra giustizialista ottenendone immancabilmente in cambio fatwa degne del miglior khomeinismo, come non pensare, lo confesso con un sorriso, che lo scrittore di Racalmuto dovette sopportare la polemica di Alberto Asor Rosa, il quale arrivò a scorgere (sic!) nel Giorno della civetta un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi.

Persino nello scoprire in me, inesorabilmente raggiunta la maturità, un sempre più intransigente, radicale anti-giacobinismo, senza praticare il quale il mio sempre rivendicato illuminismo mi parrebbe degradare ad affermazione di maniera, come non pensare a quanti gli rinfacciarono con la bava alla bocca la frase “i professionisti dell’antimafia” per il semplice, ma al tempo stesso magnificamente rivoluzionario, aver sostenuto, senza comodi infingimenti, che lo Stato contro la mafia (e prima contro l’eversione armata) dovesse combattere in nome del diritto e dei propri principi costituzionali senza cedere, con la scusa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali.

Ammetto la colpa. A quasi un secolo dalla nascita mi sono, senza alcun permesso, in qualche modo, “appropriato” della figura di Leonardo Sciascia. Ma pretendo di essere scriminato.

Scriminato perché Sciascia ci ha insegnato a guardare le cose dall’alto, gettando via le lenti deformanti dell’ideologia.

Scriminato perché Sciascia, prescindendo da ogni impegno “tifoso”, ci ha insegnato l’obbligo morale dell’autonomia di giudizio.

Scriminato perché Sciascia ci ha insegnato a detestare ogni retorica, che in Italia sta “dietro ogni angolo”, individuando nella stessa il motore degli imbrancamenti, i riflessi della devozione alla causa che costellano la nostra storia.

Scriminato perché ci ha regalato sentimenti e idee che definiscono, per come lo si può definire, il profilo di un liberale.

Scriminato perché “se proprio devo scegliere un filtro attraverso il quale guardare la realtà” scelgo la sua dichiarata assenza di filtri.

Buon (quasi) secolo Maestro. Ci manchi.

Aggiornato il 09 gennaio 2020 alle ore 12:15