Il 25 novembre dell’anno venturo ricorreranno dieci lustri dalla morte di Mishima Yukio, un uomo che per chi ha la mia età e la mia formazione ha segnato la vita come scrittore, come esteta e come immagine d’un mondo ormai scomparso.
Non m’interessa l’icona politica che ne è stata fatta da molti, forse da troppi senza mai veramente essere in grado di capire, sia da destra che da sinistra (sì, perché di Mishima si è a lungo interessata anche una certa sinistra intellettuale), ma è con piacere che plaudo a quello che sinora è il miglior esempio del saper realizzare un romanzo grafico, con l’uscita per i tipi di Ferrogallico, di Yukio Mishima, l’ultimo samurai. La prefazione di Mario Vattani, ottimo conoscitore delle isole di Yamato, fa da degna introduzione a un’opera eccellente in quanto a grafica, al disegno, curato, dettagliato con le minuziose e storicamente irreprensibili belle tavole di Massimiliano Longo. Il che non è poco in un triste panorama qual è attualmente quello del fumetto italiano. Ovviamente va dato altrettanto merito alla sceneggiatura ottima di Federico Goglio, a dimostrare che il talento senza la competenza non basta a fare un’opera a fumetti degna di menzione.
La graphic novel, per dirla in un inutile lessico anglofono, si limita alle ultime ventiquattr’ore, anzi all’ultima notte di vita dello scrittore nipponico. Un po’ come fece Paul Schrader nel suo magnifico, estetizzante film del 1985 Mishima, una vita in quattro capitoli. L’alba si concluderà prima del seppuku, con la breve frase vergata su un foglio di carta lasciato sulla sua scrivania: “La vita umana è così breve e io vorrei vivere per sempre”.
Non è possibile sintetizzare la complessa e straordinaria vita di Mishima Yukio, il cui vero nome è Kimitake Hiraoka, in poche battute, comprendere il suo pensiero, la sua “visione del mondo”, al tempo stesso conservatrice e proiettata verso l’esterno, dove – come disse in un’intervista del tempo – “il Giappone è invisibile”, necessita la conoscenza di opere come l’Hagakure ma non solo. Mishima fu un nazionalista nipponico in maniera assoluta ma mai becera, amò l’Occidente e la Tradizione europea, fu una porta estrema tra mondi lontanissimi eppure un tempo estremamente simili. Il Giappone feudale, quello dello Shogun e dei Daimyō, quello dei Bushi e dei Ronin non è poi molto distante di nostri secoli Quindicesimo e Sedicesimo. Fratelli agli opposti limiti del mondo. Questo, Mishima lo comprese alla perfezione, facendo di lui il contraltare speculare di un altro eccelso scrittore, drammaturgo e poeta, che seppe riunire il Sol Levante con l’Europa più sacra, con l’Irlanda dei Feniani e dei Druidi, che fu William Butler Yeats.
Entrambi traevano piacere dalla grande, perfetta, esiziale daikatana dotanuki in loro possesso. Yeats la canta nei suoi versi, Mishima si fa più volte fotografare mentre la impugna. Un piacere estetico e meraviglioso dato da qualcosa nella quale si realizza la perfetta fusione dell’arte, dunque della bellezza e della funzionalità, pertanto dell’unica necessità che è la morte.
Bellezza e morte, come il filo lucente e taglientissimo, lo yakiba, della katana. Bellezza e morte che fu la vita senza compromessi di Mishima Yukio. Yeats non si suicidò, ma scelse di vivere in un “tumulto tra le nubi”.
L’impermanenza della vita umana li affratella entrambi. Inutile cercare miasmi omoerotici in Mishima, anche se fu omosessuale, tale inclinazione va compresa soltanto nel pensiero androgino della “via del guerriero”. Nessuna morbosità nelle sue fotografie dove raffigura se stesso come San Sebastiano; il “dolore” e la “morte” sono anche qui una cosa sola con l’estetica e la perfezione del corpo e dello spirito tipica del Bushido.
Come il ciliegio a primavera così è la vita, e così voglio ricordare per sempre, come cavalli in fuga, come il sole che esplode dietro le palpebre in un padiglione d’oro, con l’acciaio mirabile di Muramasa quel Giappone, eterno e invisibile, che Mishima Yukio ci ha lasciato in dono.
Aggiornato il 27 novembre 2019 alle ore 10:03