Colpevole ed ebreo, o “Ebreo e, quindi, colpevole”? Ne “L’Affaire Dreyfus” è il secondo aspetto a prevalere. Ovvero: quando la politica e la casta militare si alleano per ribadire attraverso la volontà popolare il pregiudizio antiebraico, che giustifica la manipolazione grossolana delle prove di alto tradimento per colpire un ufficiale ebreo. Così si dà un segnale politico e un monito al milieu dell’ebraismo francese e si fa propaganda all’interno di un quadro di famiglia gallonato, ritratto alla fine di un effervescente Ottocento francese, preludio torbido e altisonante della disastrosa disfatta dell’Armée (con quasi mezzo milioni di morti!) all’inizio della Prima guerra mondiale.

Anche allora il solo responsabile collettivo, per il quale la truppa era solo carne da cannone buona a nutrire le ambizioni di carriera degli ufficiali superiori, è da individuare in un vertice militare tanto arrogante quanto incompetente, per cui la verità sta in ciò che si vuole credere, e non in quello che i fatti certificano senza ombra di dubbio. Il film L’Ufficiale e la spia - J’Accuse, per la regia di Roman Polanski (coprodotto da Eliseo cinema, Rai cinema e 01 Distribution, in uscita oggi nelle sale) è il ritratto magistrale di una verità terribilmente scomoda, che verrà pubblicamente dimostrata soltanto grazie alla dirittura morale di un ufficiale superiore e a una rovente battaglia mediatico-giudiziaria condotta a tutto campo, Emile Zola in testa a tutti che subirà la condanna a un anno di prigione per il suo J’Accuse!, pubblicato a tutta pagina sul quotidiano parigino L’Aurore.

Infatti, soltanto la buona coscienza di un alto ufficiale e il giornalismo d’inchiesta degno di questo nome riuscirono all’epoca a riportare nella madrepatria un uomo ingiustamente condannato con un’accusa infamante e disonorevole, relegato su di un’isola sperduta dell’oceano dalla quale non sarebbe mai più dovuto tornare. Le scene scorrono tra i polverosi uffici organizzati in modo approssimativo e senza rigore logico del servizio segreto militare dell’ultimo decennio dell’Ottocento, aprendo poi le porte delle stanze paludate e rigogliose di stucchi, dipinti, arazzi severi e guerrieri dei palazzi ministeriali del ministero della Guerra e delle aule dei tribunali militari e civili, nei quali all’epoca si svolsero le drammatiche vicende del Processo Dreyfus.

Velleitarismo, malinteso amor di patria e difesa dell’onore dell’Esercito francesi portarono alla degradazione sul campo di un innocente Capitano ebreo che, come ebbe a dire in Tribunale il perito calligrafo, si era auto-falsificato preventivamente la propria scrittura per evitare di essere smascherato! E quando la verità affiora restringendo l’obiettivo sul vero traditore, un maggiore fallito dell’Esercito, avido di denaro e della bella vita dei bordelli del Can-Can parigino, nessuna prova documentale “vera” potrà mai rimettere in discussione quello che per le alte gerarchie militari era un caso chiuso da mai più riaprire.

L’ottica dogmatica dei generali al comando fa leva sul giudizio a priori che deve a tutti i costi auto-avverarsi: nel loro caso come per il generale-ministro della Guerra era esclusa qualsiasi ammissione di errore e, quindi, nessun salvacondotto poteva essere concesso a un colpevole risultato innocente, a costo di colpire l’onore di un altro, onesto ufficiale superiore, facendolo a sua volta condannare (anche lui da innocente!) da un Tribunale militare supremo per aver divulgato segreti di Stato e dichiarato il falso. A sigillo dell’infame complotto, si obbliga al suicidio l’ufficiale superiore che ha manipolato le prove e si fa uccidere proditoriamente alle spalle l’avvocato difensore di Dreyfus!

Il film è una ricostruzione impietosa, brillante, caparbia fino all’eccesso di dettagli (ma tutti, invariabilmente, preziosi come diamanti) della più clamorosa fabbrica di “fake” della Storia moderna, costruita a tavolino molto prima che i social ne divenissero i divulgatori privilegiati planetari. Ma poiché è sempre vero che il Diavolo sta nei dettagli, “L’Affaire Dreyfus” dimostra come non sia sufficiente rimuovere chi ha messo in gioco e a rischio la propria carriera per amore di verità, sostituendolo con un fedele gregario complice delle falsificazioni; né giurare il falso come fecero le alte gerarchie militari che avrebbero dovuto difendere l’onor di Patria.

Ma quando il colonnello difensore di Dreyfus diventerà (anche grazie a lui!) generale-ministro della Guerra e il Capitano riabilitato chiederà udienza al suo superiore per ottenere il riconoscimento al grado che gli sarebbe spettato di colonnello (per giusta ricostruzione della carriera!), anche in quell’occasione la Giustizia dovrà ancora una volta abdicare alla “Realpolitik”! Regia di Polanski semplicemente perfetta e carica di intenso pathos!

Aggiornato il 21 novembre 2019 alle ore 13:55