Pensa a un desiderio che vorresti si realizzasse sapendo che questo sarà possibile solo se riuscirai per un certo tempo, diciamo almeno una dozzina di secondi, a non pensare a una scimmia. Questa sorta di esperimento, o paradosso, è suggerito da un esempio proposto da Allan W. Watts, nel suo libro su La via dello Zen: “è come se qualcuno – scrive Watts – mi avesse dato una medicina con l’avvertimento che non agirà sul mio organismo se, prendendola, penserò ad una scimmia”.
Qui siamo di fronte ad un impedimento essenziale, innescato da un circolo vizioso non meno loico di quello con cui, nell’inferno dantesco, Minòs distribuiva i suoi giri di coda e che può essere reiterato da qualsiasi immagine o significante. La sua tipologia non è dissimile da un altro famoso paradosso: quell’esortazione “sii spontaneo”, che rende automaticamente impossibile la sua realizzazione, su cui la scuola di Palo Alto ha con lungimiranza imbastito un’intera psicologia.
Lo stesso Watts ci avverte però di come i maestri zen avessero trovato la soluzione a questo increscioso inconveniente logico con largo anticipo rispetto alla scuola statunitense: se “non mi è possibile essere intenzionalmente non intenzionale e di proposito spontaneo”, non mi resta che essere intenzionalmente intenzionale e semplicemente “avere il proposito di essere munito di propositi”.
Certo, nonostante questa soluzione, ovvia e geniale a un tempo, dei maestri orientali, simili paradossi sembrano godere della prerogativa di riuscire a trasformare quelle che suonano come proibizioni o esortazioni in vere e proprie ossessioni. Simone Weil osserva che “si crea un’ossessione dicendo: “Non pensare all’orso bianco”. Ma poi aggiunge: “non c’è pericolo di restare senza orsi bianchi, ed essi si equivalgono tutti. Lo strappo doloroso nell’anima che cessa di pensare a qualcosa è il modello del bene”, come se il bene, il pensarlo sentendolo, essendone pervasi, comportasse uno strappo del pensiero, la capacità di omettere il suo innesco anche di fronte ad una provocazione assoluta.
Sempre Simone Weil ricorda come Valéry sostenga che, “nel suo grado supremo, l’amore è una volontà di creare l’essere che ha assunto come oggetto”. Così “l’ansioso cerca l’ansietà. Il timoroso cerca la cosa da temere”. Rinunciare a creare un tale oggetto sarebbe uno strappo troppo doloroso, perché se questo venisse a mancare, se al suo posto ci fosse un buco o l’impossibile, l’atto noetico subirebbe il trauma di vedersi sottrarre di sotto il naso il proprio noema, e niente si può immaginare di altrettanto improbabile o insensato.
La conclusione cui perviene Valéry, nella versione che ne dà Simone Weil, è la seguente: “come la mano non può lasciare andare un oggetto che brucia, sul quale la sua pelle fonde e si attacca, così l’immagine, l’idea che ci rende pazzi di dolore non può staccarsi dall’anima, e tutti gli sforzi e i moti dello spirito per liberarsene, la trascinano con sé”.
Questa potrebbe essere anche la ragione per cui non si riesce a non pensare “scimmia” quando proprio il non pensare a questa parola è la condizione per essere felici. La posta in gioco sarebbe troppo alta per non volersi precipitare nell’abisso che ne evoca il tracollo. Un Altro molto dispettoso – forse imparentato con quello che Jung chiamava il “briccone divino” – fa in modo che tutto quanto può frapporsi tra te e la tua felicità si materializzi. Poiché tra le cose più facili a materializzarsi ci sono le parole (insieme alle immagini e alle emozioni) niente di più semplice che far sì che una parola venga pensata.
Forse una sola parola può costituire il punto di leva capace di sollevare il mondo, o almeno di rovesciarne l’immagine. Così come in Ordet di Carl Theodor Dreyer, e più in generale per un credente alla Kierkegaard, la parola può salvare, una parola può anche annichilire qualsiasi felicità. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che nell’Altro c’è sempre una specie di buco, un punto vuoto virtualmente occupabile dall’opposto, da quello stesso opposto complementare, di memoria eraclitea, di cui parla Jung nei Sermoni. Se c’è un buco in bocca, magari lasciato da un dente estratto, dove va a rovistare la lingua? O dove batte se fa ancora male? E perché Achille doveva avere un tallone tanto vulnerabile? Perché – si dirà – se non ci fosse un simile tallone in chiunque, chiunque sarebbe simile a un Dio, peccando così sommamente di Übris.
Qualcuno potrebbe tuttavia non vederci niente di male e continuare a chiedersi: perché dobbiamo avere paura di essere come gli Dei? Non tanto – si potrebbe rispondere – per quelle poche circonvoluzioni di libertà in più di cui gli Dei sembrano godere e cui potrebbe sembrare pericoloso voler accedere, quanto piuttosto per la responsabilità di cui devono farsi carico: la responsabilità di essere enti “unarii” – come direbbe Lacan, ma come potrebbe aver detto anche Bernard le Bovier de Fontenelle – cioè non mancanti d’essere, non privi “di una certa difficoltà ad essere”, ovvero pericolosamente compatti, e perciò in una condizione in cui c’è solo da perdere tutto in un colpo solo a ogni minimo movimento.
È come se l’Altro dicesse: o sai dar vita ad un’eccezione nel discorso della scimmia taoista, provocando uno strappo essenziale nel pensiero, che però rischierebbe così di farti sembrare onnipotente per aver superato la mia provocazione, o altrimenti devi sottometterti a quel discorso, che viene comunque da me. La tua completa sottomissione alla legge e al verbo è testimoniata dal fatto che non puoi non prefigurare ciò che la legge vieta. Così, ciò che non si può scongiurare, è destinato a farsi vertigine, a infinitizzare la sua rappresentazione.
Proprio ciò che non si poteva fare, non poteva che essere fatto. Come nel caso della scimmia, o dell’orso bianco, e come fin dai primordi del testamento sacro, anche qui l’ineluttabile logica della negazione della negazione dialetticamente s’impone ad attanagliare gli umani in un gorgo sinistro. Come i gatti, che per sottrarsi a un pericolo incombente sono propensi ad attraversare di slancio la strada per finire col gettarsi sotto l’automezzo da cui vorrebbero invece fuggire, così gli umani sono inclini a cercare di evitare un qualche pericolo avvertito come inesorabile gettandoglisi contro.
Gli esseri umani sono abbastanza coraggiosi per rinunciare a una sicura dimora, pronti a volare o a sfarfallare nell’aria sfidando gli alterchi molesti di sorti diverse, ma poi si lasciano fregare da un paradosso da nulla. I gatti non sono da meno, e anche loro, per un analogo ghirigoro del pensiero, ci lasciano sovente le cuoia. A differenza degli umani non sembrano però usufruire della consolazione estrema: quella di poter osservare dall’alto o da fuori quel che di volta in volta rimane di loro, inglobando ad ogni giro il paradosso che li animava di soppiatto, quasi non fosse stato che l’ennesimo trucco dello spirito per rinascere dalle ceneri sbiadite della propria transitoria distruzione.
Aggiornato il 31 ottobre 2019 alle ore 13:20