Da non perdere – quasi ovviamente – l’affresco di Martin Scorsese, “The Irishman”, film di tre ore e mezza, visto lunedì alla Festa del Cinema di Roma, edizione numero 14 (sembra ieri quando Walter Veltroni la lanciò tra sterili polemiche) tratto da un libro di Charles Brandt sulle confessioni in punto di morte del boss irlandese Frank Sheeran. “Confessioni” quasi estorte da questo bravo giornalista. E che comprendono l’assassinio e la relativa scomparsa del cadavere di Jimmy Hoffa, il mitico leader para mafioso dei “teamsters” americani, cioè i camionisti, di cui ci ha parlato anche Sergio Leone in “C’era una volta in America”. Solo che il film di Leone e il libro “The Hoods” di Harry Grey da cui è tratto parla più dell’epoca del proibizionismo che di quella del Secondo dopoguerra. O dell’elezione di Kennedy o del fallito golpe anti-Castro della Baia dei Porci. Invece, questo dipinto cinematografico di Scorsese parla della mafia italo-americana del post-proibizionismo. Costato 160 milioni di euro, al contrario di “C’era una volta in America” – che pure ebbe bisogno di dieci anni per vedere la luce – questo film, che potrebbe chiamarsi “C’era un’altra volta in un’altra America”, non sarebbe mai stato prodotto senza la piattaforma Netflix. Perché praticamente Hollywood quasi non esiste più. E questo per mettere a tacere chi storce il naso per queste piattaforme. Senza “lilleri non si lallera”.
Nel libro il boss racconta anche tanti aneddoti della Seconda guerra mondiale, che è stata per gli italoamericani un’occasione di riscatto di cui si è avvantaggiata anche la mafia italoamericana lasciata indisturbata a farsi i fatti propri in America fino all’avvento di Ronald Reagan e di Rudolph Giuliani. Fu una ricompensa per lo sbarco in Sicilia e questo è valido storicamente non nei teoremi giudiziari di moda oggi. Nel film ce n’è uno solo di questi racconti di guerra – sennò sarebbe durato un mese – ed è quello cinico in cui l’Io narrante di Frank Sheeran ricorda di come i soldati nazisti si illudessero che quando i soldati americani facevano loro scavare le proprie fosse (per non portarseli come prigionieri dietro nelle avanzate della liberazione d’Italia o in quella delle terre francesi della Lorena) poi non le avrebbero riempite con i cadaveri degli stessi tedeschi che le scavavano. Invece non ci fu alcuna pietà come si vede in una delle prime scene del flashback di cui si compone la pellicola. La storia è un capolavoro perché sono le memorie dettate dall’ospizio in cui era finito questo boss che aveva paura di esser visto come un “rat”, un informatore, e che parlò solo nel 2003 quando si rese conto che i suoi complici erano tutti morti e che lui eventualmente stava scrivendo un pezzo di storia recente dell’America, non un verbale di testimonianza accusatoria.
Ciò nonostante, l’Fbi andò a fare il luminol nella casa in cui sarebbe stato ucciso Hoffa, proprio dall’Irishman che gli faceva da guardiaspalle, ma il dna trovato non era quello del leader sindacale. Anche se va detto che in quella casa probabilmente c’erano state diverse pitturazioni.
Cioè omicidi. Il libro originariamente si chiamava “I heard you paint houses”, che è la frase che Hoffa rivolse per telefono a Sheeran prima di assumerlo come guardaspalle. La pittura delle case però non era quella degli imbianchini, ma la conseguenza del sangue delle vittime versato durante gli omicidi organizzati dai boss italoamericani. Questo film quindi comincia proprio da dove finisce “C’era una volta in America”, cioè dalla metà degli anni Settanta, quando le commissioni d’inchiesta del Congresso americano cominciarono a scavare sul sindacato dei camionisti, sui contatti mafiosi del padre dei Kennedy, sui retroscena del golpe fallito alla Baia dei Porci contro Castro nel 1961 e poi persino sulla morte di Marilyn Monroe e di Robert Kennedy. Sullo sfondo la squallida vita privata dei mafiosi e delle loro famiglie, tra religione e ipocrisia, tra omicidi e codici d’onore dimostratisi puntualmente solo teorici.
Pellicole così sono come grandi lezioni di storia e anche di filosofia della politica e della criminalità organizzata. Gli insegnanti non dovrebbero esitare a farli vedere agli allievi degli ultimi anni di liceo. Invece di rincoglionirli con i miti della lotta alla mafia scritti dai pentiti degli anni Novanta e seguenti. Su quelle dichiarazioni sarà molto più difficile scrivere grandi libri e sceneggiature e anche girare bei film. O decenti miniserie televisive. Troppa ideologia e pochi, pochissimi fatti.
Aggiornato il 22 ottobre 2019 alle ore 10:01