Quant’è buffo il... Mistero? Se ti chiami Dario Fo diventa anche molto serio, come il mondo dei puri di cuore visto da sotto la sottana della moglie che ha la passera depositata in sacristia! Oppure, quella storia del figlio bambino di Dio che svela al mondo l’ingiustizia della giustizia tramutando in una statua di sale il piccolo principe prepotente e invidioso, figlio del padrone della città, colpevole di avergli guastato i suoi giochini miracolosi.
Ugo Dighero ha portato in scena al Brancaccino di Roma dal 10 al 13 ottobre scorso (ma lo spettacolo andrà in tournée dal 7 al 17 maggio al Teatro Carcano di Milano e sarà il 24 novembre ad Assisi presso il Teatro degli Instabili) un esilarante monologo, con due storie (Il primo miracolo di Gesù bambino, La parpàja topola) tratte dal Mistero Buffo del Premio Nobel Dario Fo. Malgrado un colpo della strega a sorpresa, l’istrionismo e l’agilità appena claudicante di Dighero non gli ha impedito di mimare ed esprimere con il linguaggio del corpo (un po’ come certi attori en travesti delle operette buffe del grande Mozart) i vari soggetti maschili e femminili, infanzia divina compresa, che affollano le due storie in “grammelot”.
Linguaggio quest’ultimo semiserio, con il quale i contastorie depurati e perseguitati dalla Controriforma recitavano nelle loro terre d’esilio parlando a un pubblico che non capiva la loro lingua. I giullari, all’epoca, venivano messi all’indice perché dissacratori dei costumi corrotti degli uomini di Chiesa e quindi considerati un po’ figli del demonio, che ride sempre delle sciocchezze e delle sventure umane, mentre invece i testi benedettini (come ci racconta In nome della rosa) impongono l’ostracismo al riso come si farebbe con un atto sacrilego.
Tecnicamente, il “grammelot” è una lingua teatrale composta di parole inesistenti ma che, grazie all’onomatopeismo e al potere universale della mimica e del linguaggio dei gesti e del corpo, possiedono uno straordinario potere evocativo e comunicativo. Il “non-vocabolario relativo” è alla base di una lingua che contamina dialetti lombardo- veneti, latino e forme verbali arcaiche, memoria del teatro dei giullari medievali e delle narrazioni dei “fabulatori” del Cinquecento, e possiede una forte energia evocativa dove la sola intonazione della voce costruisce i personaggi.
L’arcolaio della poesia in volgare di Fo ha una lana apparentemente grezza con cui fila storie che, pur partendo dai miti, dai Vangeli apocrifi come dai racconti popolari intessuti e intrisi di magico, di superstizione, d’ironia ma anche di sano buonsenso, viaggiano leggere nei secoli per depositarsi in tanti cumuli di polvere clonata laddove c’è una buca di pensiero, un difetto d’ironia, di allegria e di riso. Così, la prima storia narra di un Re Magio esasperato da un suo collega chiacchierone di colore che riempie di stupide canzonette le migliaia di miglia che li separano dalla stella cometa. Poi, quell’Arcangelo che sì, insomma, sarà pure tanto bello con quelle sue ali così larghe, ma che passando e ripassando lungo i campi di pascolo per disseminare la buona novella spaventa le greggi rovinando il lavoro dei pastori, che poi debbono andare a riprendersi i loro animali dispersi.
Per non parlare del lavoraccio che fa il povero asinello a trasportare i regali delle genti occorse ad adorare il Bambinello, con Maria che pretende di sedere in cima a quelle masserizie, costringendo Giuseppe a caricarsi tutti loro sulle sue spalle! Così come al povero capraio che vive come un eremita sulle sue montagne capita di entrare in confidenza con un vecchio pazzo ricchissimo, misogino alla ennesima potenza, ossessionato dalla fobia per la “parpàia topola”, ovvero quella cosa assai più famosa e nota anatomicamente come “vagina”, che gli incute letteralmente terrore trasmettendolo tale e quale al povero pastore assieme a tutta la sua ricchissima eredità di terre, case e servi. Ovvio che quando un povero diventa un ricco, i piranhas femmina (madri e figlie in età da marito) si attivino come mosche attratte dal miele. Ma per tutti (ahimè?) esiste una parpàia topola che ti farà perdere la testa, curandoti per sempre dalle tue ossessioni indotte. Un “Bravò” di tutto cuore a Ugo Dighero.
Aggiornato il 15 ottobre 2019 alle ore 13:29