Può un fantasma uccidere? Ebbene sì, come narra il romanzo di Martha Batalha, “ Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione”, che il regista Karim Aïnouz ha trasposto ne “La vita invisibile di Eurídice Gusmão” (al cinema dal 12 settembre), con Carol Duarte, Júlia Stockler, Gregório Duvivier, Barbara Santos, Flávia Gusmão.

Un film sul dolore incommensurabile dell’assenza, registrato ai due poli di un dittico affettivo irriducibile composto da due sorelle separate nel fiore della loro giovinezza da un destino ingiusto quanto assurdo. Agli occhi delle generazioni successive di figli e nipoti, le sorelle saranno riconoscibili e identificabili soltanto attraverso due identici pendagli d’oro degli orecchini della loro nonna: l’uno al collo di Eurídice per tutta la sua vita, la geniale pianista che mette al rogo il suo totem non appena viene a sapere della morte solo apparente della sorella; l’altro al lobo di Guida fino alla sua scomparsa. Il dramma inizia proprio con lei, cacciata per sempre di casa da un padre-padrone soltanto perché rimasta incinta di un marinaio greco, che alla famiglia ha preferito il mare aperto e le bettole di porto in cui l’avventura amorosa dura una sola notte. Guida per tutta la vita sarà tenuta all’oscuro delle sorti della sorella maggiore, che continuerà a collocare al conservatorio di Vienna, ultima dimora falsa datale da suo padre. Il tradimento durerà oltre la morte di sua madre, tenuta al segreto dalle minacce del marito e dalla propria inconsistenza vigliacca di donna succube.

Solo un rapporto epistolare a senso unico scritto in vari anni da Guida a Eurídice e finito nei cassetti chiusi della casa paterna per comune volontà di madre e padre atterriti dallo scandalo, terrà uniti i fili intrecciati del racconto avvolgendo attorno al Fuso del Destino il tempo che passa e che vede un’ Eurídice sempre più disperata fare figli con un uomo che non ama, cercando con la massima determinazione l’ammissione al conservatorio e, al contempo, notizie della sorella Guida. Entrambe con le rispettive immagini dislocate: la minore in Grecia; la maggiore a Vienna quando in realtà le coordinate spaziali reali le collocavano a pochi isolati l’una dall’altra nella capitale brasiliana. L’una, Eurídice, prigioniera delle sue sicurezze borghesi: un marito, una figlia, dei genitori molto presenti. L’altra libera ma dispersa nell’affanno di una vita da ragazza madre, che sbarca il lunario facendo mestieri umili e pesanti, per crescere da sola un unico figlio. La casa comune di queste due povere anime? L’immenso spazio affettivo di una ex prostituta di colore, che ha ereditato dal suo ultimo amante una minuscola abitazione in uno dei bassi di Buenos Aires. Alla sostanza apparente per Eurídice di un affetto familiare svuotato di senso e di significato per l’assenza di Guida, se ne contrappone uno ribaltato da parte della minore che riesce a sopravvivere proprio grazie a una marginalità circostante densa e amorevole, che le fa da giaciglio e da culla, di un’umanità presente sebbene martoriata da mille problemi pratici, da risolvere in prima persona per le protagoniste femminili.

Ancora una volta, qui come in tanti altri film. romanzi e saggi, le figure maschili si proiettano all’interno dei coni d’ombra del loro egoismo, finti padroni di un destino che in realtà sfugge alla loro comprensione, che vedono in ogni donna una preda o un nemico, oppure entrambe le cose al tempo stesso. Gli uomini moderni, cioè, tendono a concepire un mondo a-progettuale, vittime consapevoli della predominanza del cromosoma “X”, mentre le donne si identificano e vivono sempre di più con l’arte di amare, di comporre, di concepire una famiglia allargata e di sostenerla affettivamente e materialmente con le sole loro forze. L’uomo, cioè, non è più né Faber, né Guerriero, ma un semplice pantofolaio, o al più un avventuriero irresponsabile. Ecco perché la sorellanza si è sostituita alla fratellanza, in un mondo in definitiva non più duopolare “Maschio/Femmina”.

 

Aggiornato il 24 settembre 2019 alle ore 11:20