Quando il mondo è un manicomio

“Di ogni evento sgradito gl’Italiani cerchino ogni ora una delle cause in loro medesimi. Ve la troveranno pure. E sarà la sola cosa importante. Imperocché soltanto noi stessi, noi possiamo muovere. Non già gli altri. Né le cose bensì noi stessi, in rapporto agli uni e alle altre. Daremo allora l’ascia dove unicamente possiamo darla e dove porta frutto” scrisse Maffeo Pantaleoni nel 1919, giusto un secolo fa!

Questo filone di pensiero, che procede da Dante a Machiavelli, da Leopardi a Prezzolini e Ricossa, costituisce il nerbo di una filosofia civile altissima quanto elitaria. Infatti la massa del popolo italiano predilige le snervate credenze che facilmente lo illudono e trascinano lungo i sentieri dell’irresponsabilità morale e politica. Come ci è capitato di sottolineare nell’Ideologia italiana, “il cittadino nutre la convinzione che, nella società, il bene proviene da lui anche se si comporta male, mentre il male deriva dagli altri pure quando agiscono bene”.

Chi fu Maffeo Pantaleoni (1857-1924), che pure con Vilfredo Pareto riportò all’attenzione internazionale la scienza economica italiana e Piero Sraffa definì “il principe degli economisti italiani”? È triste dover constatare che egli cadde nell’oblio e fu merito (l’ennesimo merito!) di Sergio Ricossa l’averne riproposto l’opera nel 1976 curandone l’antologia Il manicomio del mondo e altre pagine scelte, che adesso l’editore “Liberilibri” ha ristampato con prefazione di Manuela Mosca.

Quali furono le cause dell’oblio? È presto detto, semplicemente elencando qualche nome dei capitoli evidenziati da Ricossa, una piccola silloge di quelle “verità effettuali” (Machiavelli) che gl’Italiani respingono appassionandosi ad opposte fantasie: “qualunque imbecille può imporre nuove tasse”; “non vi sono prigioni per gli uomini di Stato”; “il socialismo si vanta di frutti non cresciuti nel proprio giardino”; “è utile il sindacalismo?”; “sono utili gli scioperi?”; “ciascuno e tutti sono imprenditori”; “come avvenga che le nazioni progrediscano e decadano”; “il progresso sociale incute alle masse un vero terrore”; “il merito non esiste”; “la giustizia è una chimera”.

Ognuno di questi e gli altri capitoli demoliscono, con devastante logica, lucida passione, brillante ironia, i fangosi luoghi comuni nei quali “i benpensanti” si rivoltolano godendone come maiali nella melma. Nel capitolo “La realtà storica e il mito”, per esempio, leggiamo: “A teatro importa ciò che avviene sulla scena. Del retroscena gli spettatori non si curano in alcun modo. In politica non è così. Ciò che i popoli pagano con denaro e sangue, con il loro onore, con la loro prosperità, con la sorte delle generazioni venture, tutto questo avviene nel retroscena. La realtà storica è là. Sulla scena si svolge l’inganno: il mito. La scena si accomoda ad uso ed inganno dell’incurable imbécile come Gohier chiama l’elettore, il contribuente, il cittadino”.

Quali adesso le ragioni della ristampa del gioiellino Pantaleoni-Ricossa, “feroci avversari di ogni socialbuonismo”? Anche qui è presto detto, e ben detto, con le parole dell’Editore: “In questi anni di ben temperati conformismi, offrire agli italiani la possibilità di rileggere – o leggere – questi urticanti pensatori, potrà invece rivelarsi utile. I loro affilati argomenti demolitori delle sempre riemergenti superstizioni egualitarie e stataliste, non mancheranno di schiarire l’orizzonte offuscato delle nostre menti, impigrite da decenni di martellanti demagogie”.

Aggiornato il 05 luglio 2019 alle ore 16:15