Un libro che rientra nel novero delle opere che in buona misura rispecchiano l’essenza, o quantomeno, alcune caratteristiche del loro autore che, in questo caso, per fierezza, determinatezza e combattività potremmo accostarlo, perché no?!, “all’allobrogo feroce” suo conterraneo (si parva licet componere magnis). Tuttavia non possiamo accumunare Giordano che pure, talvolta, s’infiamma durante i dibattiti televisivi, all’irascibilità dell’astigiano il quale, in un attacco di collera, rammentiamolo, scagliò un candelabro contro un servo rompendogli la capoccia. Ohibò. Oddio Giordano non arriverebbe mai a tanto, ci mancherebbe, per carità! Ehm ehm... insomma, insomma, vallo a sapere. Non lo farebbe? Forse perché non dispone di servi. O forse, magari, semplicemente perché non possiede dei candelabri? Quien sabe.
Fuor di cèlia possiamo affermare che il saggio in questione, frutto d’un viaggio segnato dallo stupore e dal disappunto lungo la nostra Penisola, è dolorosamente serio e ci pare principalmente destinato agli innamorati dell’Italia, delusi e preoccupati per quanto ad essa sta accadendo. Il lavoro di Giordano offre informazioni e commenti a dovizia che qui dovranno necessariamente trovare una sintesi.
Il libro con accenti proustiani prende l’abbrivio dalla cascina del nonno denominata Ca’ di Fra’ sopra le colline di Canelli. Ormai ridotta ad un rudere sommersa dalle sterpaglie, circondata da case acquistate dagli stranieri i quali, a dire il vero, le ristrutturano bene ma poi non le utilizzano. Costoro “non si vedono mai”, lamenta l’autore che poi aggiunge: “Case perfette che però, purtroppo, non sono più nostre. Hanno perso la vita. Hanno perso l’anima”.
L’anima, un sostantivo che affiora varie volte dalla selva di dati del libro che, impietosamente, svelano la svendita del nostro patrimonio economico, culturale etc. Gli stranieri hanno esautorato in parte persino la mafia nostrana: “Non siamo più padrini a casa nostra” è il titolo d’un capitolo vergato con amara ironia da Giordano che esplora, con rigore e fermezza, ogni possibile campo concernente gli italici interessi. I gangli dell’economia in buona parte sono stati acquisiti dalla rapacità degli stranieri, marchi prestigiosi che credevamo nostri oggi non lo sono più: Cerruti, Versace, Parmalat, Pernigotti, Peroni, Gancia, Sasso, Bertolli, Carapelli, Galbani, Invernizzi, Fiorucci, Algida, Ducati, Piaggio e chi più ne ha più ne metta. Si sono impadroniti financo della Rinascente, geniale nome coniato dal vate D’Annunzio che, quale patriota, si rivolterebbe nella tomba se sapesse di siffatta trasmutazione. Ordunque è l’ora della greppia e sono tanti i nuovi padroni (cinesi, svedesi, olandesi, tedeschi, indiani, inglesi, americani, arabi etc.) i quali, approfittando della gracilità della nostra classe dirigente, esterofila e provinciale, ci stanno scarnificando. Sarebbe, pertanto, ingiusto aggredire “i nuovi predoni che ci stanno rubando il nostro Paese”.
La responsabilità è di noi italiani tutti che abbiamo espresso dei governanti mediocri, privi di lungimiranza, dominati dall’inettitudine, incapaci di evitare cotanto scempio. Uno scempio che si colora di tonalità grottesche se apriamo il fronte anche dell’immigrazione incontrollata o comunque dell’eccesso di stranieri comunitari e non. Leggiamo a tal proposito un esempio indicativo: a Ladispoli, all’Istituto Corrado Melone, i docenti, essendosi accorti d’una esorbitanza di allievi romeni, che hanno pensato di fare? Istituire un’ora obbligatoria di romeno per tutti, italiani compresi. E per analogia, qualora la presenza di studenti musulmani fosse schiacciante, non ci sarebbe da sorprendersi se qualche bello spirito costringesse gli italiani superstiti ad inginocchiarsi volgendosi verso la Mecca e a recitare la preghiera musulmana: ”Subhânaka Allahumma wa bihamdika, wa tabâraka ismuka, wa ta’ala”. jadduka, wa la ilâha ghairuk. Audhu bi Allahi mina ash-shaitani r-rajim”.
“L’uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c’è turpitudine o dolore a cui non s’adatti” (Gabriele D’Annunzio).
Assai apprezzata la parte relativa al depauperamento della lingua italiana. Ciò è dovuto, crediamo, ad una molteplicità di ragioni, però in codesta sede, hic et nunc, le possiamo racchiudere stringatamente in un paio: l’infestazione da anglicismi e il declino formativo e culturale della nostra società. Per corroborare quest’ultimo aspetto potremmo riportare la denuncia di Camilleri il quale, in una recente intervista, ha asserito che in Italia i semianalfabeti unitamente agli analfabeti di ritorno ammontano a circa 28 milioni. Un numero, a ben riflettere, spaventoso, angosciante. Ma non dovremmo scivolare nello sconcerto visto quanto possiamo quotidianamente constatare attorno a noi. Il corredo lessicale dell’italiano medio ammonta a non più di poche centinaia di vocaboli, politici di primo piano che bisticciano con il congiuntivo, laureati sgrammaticati etc. Un popolo per meritare rispetto deve avere un’identità forte che si conquista solo rispettando la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria storia.
Ben venga la signora alterità, purché ci sia un’identità vera. ”L’Italia non è più italiana” è un atto d’amore scritto con passione da un appassionato della nostra, nonostante tutto, meravigliosa Italia.
Aggiornato il 29 aprile 2019 alle ore 17:31