L’uscita del quinto libro di Marilù S. Manzini non ha stupito il lettore, chi segue da tempo la scrittrice ha percepito che la sua vena non può fermarsi: Marilù è come una Cassandra deputata a svegliarci, a metterci in guardia dal pericolo di una società senza amore, ascolto, comprensione.
Infatti, “La cura della vergogna” (edizioni Bietti) è un romanzo psicologico, tanto terapeutico per chi ha perso (o non ha mai avuto) fiducia in se stesso. La scrittrice non si picca di divulgare l’opera che guarirà le nostre insicurezze, ma ci racconta (forse in maniera autobiografica) come si possa tentare una sorta di percorso auto-curativo. Come cercare di diventare consapevoli delle proprie carenze, fragilità, che poi sfociano in quel misto di tristezza ed insicurezza che ingigantisce la nostra paura del mondo, della vita. Un tema, quello della Manzini, che ha tanto in comune con la locuzione latina “cupio dissolvi”: tradotta letteralmente significa desidero di essere dissolto, e deriva dalla frase che San Paolo riportava nella lettera ai Filippesi. Non fraintendete, perché non s’intende il desiderio di morire, quanto di vivere pienamente. Questo è anche nell’intento dell’opera della Manzini, ovvero indicarci una strada per liberarci di quel distruttivo fardello che non ci fa vivere a pieno la vita. Ed alzi le mani chi, in questa società nichilista, non abbia mai provato la voglia di annullarsi, di auto-distruggersi.
Una paura che può trascinare le nostre vite verso il nulla (nichilismo appunto), perché come ebbe a stigmatizzare Friedrich Nietzche “è l’inevitabile decadenza della cultura occidentale e dei suoi valori”.
Comunque questo atteggiamento genericamente rinunciatario (e negativo) nei confronti del mondo è sempre più spesso addebitabile al rapporto con l’altro, col cinismo degli altri. Ecco che “La cura della vergogna”, nella sua forma epistolare (lettere di un nonno ad un nipote), ci spinge ad affrontare quelle prove estreme che fortificano il nostro spirito, rendendolo inespugnabile al nichilismo sociale del nostro tempo. Perché anche noi, come il giovane protagonista del romanzo, possiamo superare le timidezze patologiche (o momentanee) solo riscoprendo le nostre potenzialità, il nostro valore.
Nel libro l’autrice permette al nonno di rivelarsi educatore rispetto al padre (una sorta di sottolineatura della generazione persa). Ed ecco che verso la fine del libro l’autrice dice del nonno “non ho mai insultato nessuno in vita mia, soprattutto guardandolo in faccia e senza che mi abbia fatto un torto. Il nonno è sicuro che anche questa prova servirà alla mia autostima, io credo sia una follia, ma d’altronde tutto quello che abbiamo fatto fino a ora lo è stato. Un’assoluta follia. Un’estrema scuola di autostima”.
Nipote e nonno si scontrano attraverso una sorta di terapia d’urto, per poi ritrovarsi come il giovane allievo col grande maestro d’arti marziali. Qualcuno a proposito del libro ha parlato di “atmosfere da thriller”: lo scrivente preferisce parlare di lezioni di umanità, di fortificazione. Un libro per la nostra epoca, il manifesto culturale che dei trentenni chiusi nelle rispettive gabbie di solitudine, paura, vergogna di sortire dal guscio per gridare che questa società ha generato dei terribili percorsi d’esclusione sociale. E chi finisce in un simile percorso si vergogna sino a morirne. Il nonno del libro è uno psichiatra novantenne che ha capito il male del nipote e della società in cui orbita: un vecchio coraggioso costringe il nipote a sconfiggere il nemico col l’amore e l’ironia. E poi c’è lo sguardo all’amore romantico, che il nonno ha serbato in sé per tutta la vita: aspetto che pone la Manzini nel grande solco letterario che fu di Mino Milani (autore di “Fantasma d’Amore”, trasposto nel cinema da Dino Risi).
Quindi un’opera di pregio, una sorta di sceneggiatura autoriale per il grande schermo, di quelle che un tempo s’accompagnavano con le musiche di Riz Ortolani. Del resto Giovanni Rodolfo Pinchetti (Andrea Pinketts, scrittore recentemente scomparso) aveva detto anni fa che Marilù Manzini avrebbe fatto molto per la letteratura italiana: durante la presentazione de “La cura della vergogna” le parole di Pinketts le abbiamo potute riascoltare attraverso un video, una toccante registrazione.
Marilù S. Manzini scrittrice, pittrice, scultrice, fotografa, giornalista, regista di film... è nel solco di Flaiano, di Fellini, di Tonino Guerra, di Milani, e forse ancora non se ne rende conto. Da un suo libro, “Il quaderno nero dell’amore” (un caso letterario da oltre 100mila copie vendute) ne ha ricavato un film da lei diretto. Stessa sorte per il suo “Io non chiedo permesso”. Dal suo primo “Bambola di cera” è passato abbastanza tempo per scommettere che si spalancheranno le porte dei noti premi, ma Marilù non si monterà la testa, ed il suo sguardo si poserà sempre sui sensibili, sugli esclusi, su chi ama.
Aggiornato il 28 febbraio 2019 alle ore 13:06