Qual è la “Perfetta Letizia”? Secondo il Frate di Assisi quella di perseverare nel chiedere ospizio anche dopo mille umilianti e scortesi rifiuti. L’umiliazione che apre le porte e le... casseforti, dunque. Ma nello spettacolo (estremamente intelligente!) “Letizia va alla guerra: la suora, la sposa e la puttana” in cartellone al Teatro Cometa di Roma fino al 17 febbraio, il brillantissimo duo di Agnese Fallongo, autrice dei testi, e di Tiziano Caputo, “musichiere” e attore multiruolo con voci maschili e femminili, fa del nome e del sostantivo “Letizia” un coacervo tutto al femminile della condizione umana della donna tra le due guerre mondiali. La scenografia è perfetta per la rievocazione dei ricordi, l’apparizione e la scomparsa dei tre personaggi principali attraverso la posa di grandi cornici disposte sul piano frontale e sulla parete a sinistra della rappresentazione. “Letizia nomen omen (nel nome il presagio)?”. Esattamente al contrario. Chi malgrado il lieto nome nasce legno storto con il Destino messo di traverso e malvagio non può che inciampare e finire nel fango di una delle tante trincee della vita infestate dai parassiti, come venire mitragliata da sposa vergine mentre trasporta con la sua gigantesca gerla viveri e materiali per gli uomini al fronte, alla ricerca del suo soldato-bambino sposato appena la mattina stessa della partenza per il fronte.
O come la piccola fanciulla di provincia poco più che ventenne che, allevata nelle cure amorevoli di un orfanatrofio femminile gestito da premurose suorine, venga richiamata nella Roma occupata dai nazisti da una zia depravata, titolare di un noto bordello della capitale, credendo di andare a fare le pulizie negli stabili dei signori, per ritrovarsi deflorata da un ufficiale tedesco in cambio di 15 lire di compenso per prestazioni sessuali a pagamento! Provatevi voi a immaginare l’immenso dolore provocato da questo inganno nell’animo gentile di Suor Letizia che dette alla povera ragazza, da lei allevata in tanti anni di amorevolissime cure, il suo benestare per andare “a servizio” dalla zia! “Letizia va alla guerra” è un costante inno all’amore muliebre dolorante, alle sue tante facce che si rispecchiano nel caleidoscopio della società italiana e occidentale. Un dolore popolare, che ci insegue nelle bellissime, brevi cantate in dialetto siciliano, prologo all’apparizione della Letizia vestita di sposa che ci narra del piccolo paese di provincia, dell’abito nuziale della nonna conservato per lei a corredo; del pudico innamoramento con il suo tenero fidanzatino. La sua incredibile decisione di andarlo a ricercare di persona sul fronte carsico, perché le sue lettere tornavano indietro nell’impossibilità di reperire il destinatario.
Immaginare quale atto d’amore deve esser stato quello di Letizia, la sposa vergine, che lascia la Sicilia per andare all’altro capo della penisola, nella terra delle esplosioni e dei massacri di uomini mandati a combattere senza nemmeno capirsi tra di loro nei mille dialetti italiani, in mancanza di una lingua comune. O quella che per sopravvivere in tempi in cui per sfamarsi si acquistava alla borsa nera è costretta ad apprendere tutte le arti della seduzione a buon mercato, per soddisfare le voglie dei signorini e della truppa sacrificandosi a contrarre malattie veneree che ne avrebbero abbreviato la vita di molti decenni. Una donna così che crede di aver chiuso per sempre con l’amore, per cui gli uomini erano in fondo solo un pene che si agita alla ricerca di una sistemazione del tutto provvisoria e fatua, è costretta a ricredersi dall’avvento di una gioventù con gli occhi lucenti di un giovane ragazzo che, svezzato sessualmente dalla sua nave-scuola incasinata, si innamora perdutamente di lei fino a chiederle di sposarla. Uno spettacolo a passi di danza leggeri dove la ballerina balla sulle punte con gli scarponi chiodati, arrampicandosi sulle montagne e sulle colline dell’infamia dove gli uomini camminano come le bestie. Spettacolo molto bello: da non perdere.
Aggiornato il 08 febbraio 2019 alle ore 13:23