Il 19 giugno 1946, nei pressi del villaggio di Abda, nell’Ungheria nord-occidentale, fu ritrovata una fossa comune in cui giacevano i corpi di 22 deportati, provenienti dall’area concentrazionaria di Bor, in Serbia, assassinati nel novembre del 1944 dalle truppe ungheresi.
Negli indumenti di una delle salme venne ritrovato, insieme a foto, lettere e documenti personali, anche un quaderno a quadretti di piccole dimensioni, sulla cui prima pagina era scritto in cinque lingue (ungherese, serbo, tedesco, francese e inglese): Il presente taccuino contiene le poesie del poeta ungherese Miklós Radnóti, il quale chiede a colui che l’ha trovato di farlo recapitare al professore universitario dottor Gyula Ortutay, al seguente indirizzo: Budapest, VII: Horánszky u. 1. Grazie in anticipo.
Al quaderno di poesie, sopravvissuto alla distruzione fisica per venti mesi sotto terra, è stato dato il nome di Taccuino di Bor.
Miklós Radnóti fu un poeta ungherese, di origini ebraiche, nato a Budapest nel 1909. Una vicenda umana riassunta mirabilmente nelle poetiche parole di Nelo Risi: “La sua vita fu durissima, povera, coraggiosa; morì nel mese di novembre ma nessuno potrà mai precisare il giorno. Gli fecero scavare la fossa e un fascista gli sparò alla nuca, è morto come altri sei milioni di ebrei. Da anni trascinava nei reparti di lavoro un’esistenza subumana; la parola “lavoro” è l’atroce eufemismo che sta a indicare il lavoro forzato per tutti quegli uomini che non potevano prestare servizio militare per “indegnità razziale”.
L’Ungheria, tra il luglio del 1943 e il maggio del 1944, mise infatti a disposizione della Germania seimila cittadini ungheresi in cambio di materie prime. Oltre il 90 per cento dei lavoratori forzati era costituito da ebrei, il resto da minoranze etniche. I “battaglioni di lavoro” dovevano estrarre rame e altri metalli dalle miniere nella regione, e costruire una linea ferrata per il trasporto. I campi erano diretti dall’impresa tedesca Organizzazione Todt, coadiuvata da personale tecnico delle fabbriche Siemens, mentre un contingente militare ungherese si occupava della sorveglianza. Radnóti fu inviato al Lager Heidenau di Bor.
All’inizio del settembre 1944, in seguito all’avanzata dell’esercito sovietico e dell’intensa attività partigiana jugoslava, il comando militare tedesco ordinò lo smantellamento dei campi di Bor. Radnóti e i suoi compagni di battaglione furono costretti ad una “Marcia forzata” registrata nell’omonima poesia datata 15 settembre. La fine della marcia è tragicamente nota. Come in una cronaca di una morte annunciata nell’ultima Cartolina postale scritta a Szentkirályszabadja il 31 ottobre 1944, Miklós Radnóti registra l’ennesima spietata esecuzione, una pallottola nella nuca, questa volta del violinista Miklós Lorsi, in cui intravede per analogazione soggettiva l’avvicendarsi della fine: – Anche tu finirai così, – mi sussurravo – resta pure disteso tranquillo.
Il Taccuino di Miklós Radnóti conserva le tracce della progressiva distruzione materiale e nello stesso tempo dell’immortalità dei versi e dell’immaginazione del poeta “che ha portato l’idillio a tingersi di nero in un’epoca di violenze che non ha confronti nella storia moderna, ma quel tutto tragico che è il contenuto della sua opera conserva una natura musicale, d’armonia, che ci lascia stupefatti”.
Una natura onirica che si ritrova nella serie fotografica di Emanuele Mascioni realizzata nella cittadina di Bor tra il 2016 e il 2018, in mostra all’Accademia d’Ungheria in Roma fino al 28 gennaio 2019. La fotografia è una riflessione vivente sull’impossibilità della testimonianza. Che mezzi abbiamo infatti noi oggi per vedere o per parlare dell’inferno? Ascoltare la voce viva dei pochi sopravvissuti. Oppure cogliere il fiore unico dell’arte, della letteratura, della poesia di chi, trasfigurando, conferiva forma al rapporto dell’uomo con l’orrore. Non una rappresentazione diretta, ma una forma di “prossimità” – per usare un’espressione di Levinas – di ciò che richiama in modo irrevocabile il soggetto alla responsabilità dell’altro.
E questa è la strada che tenta di percorrere anche Emanuele Mascioni, con la macchina fotografica, non andando alla ricerca dei resti ormai scomparsi dei campi di concentramento o delle tracce invisibili del poeta, ma approssimandosi ai paesaggi obliqui che trova a Bor in una sorta di dialogo di spessore etico. Un’intera sezione della mostra è poi dedicata alla storia di Radnóti e del Taccuino, testimone materiale di speranza e libertà, ricostruita grazie ai documenti facsimile del lascito di Fanni Radnóti, conservati nel dipartimento Manoscritti Rari della Biblioteca dell’Accademia Ungherese delle Scienze.
Per l’occasione 14 tavole sulla storia della prigionia di Miklós Radnóti sono state realizzate dall’illustratore e giornalista serbo Aleksandar Zograf, che fin dall’inizio del progetto ha instaurato con il fotografo un dialogo artistico a distanza su questa straordinaria vicenda di valore universale.
Come scrive Edith Bruck nell’introduzione al catalogo della mostra che costituisce la prima edizione italiana integrale del Taccuino di Bor di Miklós Radnóti, tradotto dalla grande scrittrice e poetessa sopravvissuta alle deportazioni e testimone esemplare della Shoah: “È un memoriale involontario a coloro, soprattutto ebrei ungheresi, che durante i tempi bui del nazifascismo sono stati deportati in quel deserto umano e costretti ai lavori forzati fino allo stremo. E non più sfruttabili fatti marciare verso la Germania di Hitler finché reggevano in piedi, o finivano con un colpo alla nuca in una fossa comune scavata da loro stessi. Non c’è niente di vivo sulle immagini qui esposte solo la sconvolgente bellezza cupa del paesaggio che toglie il fiato come le poesie di Radnóti che intuisce, sa, descrive, e sente il colpo alla nuca”.
Aggiornato il 22 gennaio 2019 alle ore 15:47