“Piccoli crimini coniugali” è un film drammatico italiano (nelle sale dal 6 aprile) tratto dall’omonimo testo teatrale dello scrittore francese Éric-Emmanuel Schmitt, diretto da Alex Infascelli, con Sergio Castellitto e Margherita Buy.
In realtà si tratta di un capolavoro teatrale che narra una sconcertante e complessa operazione decomposizione/ricomposizione di una coppia matura. Lui, Gilles, uno scrittore di gialli di successo. Lei, Lisa, una casalinga frustrata con velleità artistiche. Un giorno della loro vita tutto precipita a seguito di un non meglio precisato e misterioso incidente domestico, a seguito del quale Gilles perde temporaneamente la memoria e torna a casa dopo quindici giorni di ospedale. Entrambi, nei loro interni domestici in penombra, si improvvisano - nei modi più contorti - assassini del loro infinito amore coniugale. Salvo poi a riscoprirsi dei fantastici sarti che sanno ricucire i lembi delle ferite dove gli strappi sembrano definitivi, densi di tragedia.
Un’opera su come uccidere in mille modi l’amore e come farlo rivivere in un solo istante. La situazione richiama la scena immaginaria di quel portiere di un “Albergo a ore” (Herbert Pagani) che, aprendo la porta della stanza n. 3, la meno schifosa, si trova dinnanzi alla tragedia di una giovane coppia suicida, senza un perché; senza un preavviso qualsiasi e men che meno una spiegazione qualunque. E no che non si può morire così, anche nel caso di Gilles e Lisa, cresciuti simbioticamente come coppia, scambiandosi flussi e fluidi ininterrotti di veleni e nutrienti. Per scoprire, poi, dopo una scomposizione totale del loro essere duale che non si può fare a meno né del dolce, né dell’amaro della vita in due. Sì, è vero. La storia è rappresentata alla stregua di un interminabile setting, in cui l’analista silenzioso è la lente dell’obiettivo della macchina da presa.
L’ambient è semplicemente perfetto nella fissità implacabile dei suoi chiaroscuri che il colore rende ancora più dolorosi. Gli interni (a insaputa di regista e produttore) sono quelli della casa di Silvana Mangano, riempiti di oggetti che “sono” sostanza materiale della dimensione immaginifica dei loro proprietari: li riguardano, li connotano e li compenetrano come farebbe l’unicum delle frecce e del corpo martoriato di chi le riceve. Anche le loro parole sono così: danno la sensazione tattile del metallo laminato e affilato che forma il set strumentale per una chirurgia devastante dei sentimenti, manipolati con mani sapienti, ipocritamente smemorate. Gli oggetti, infine, e la loro imprevedibilità di fondo, malgrado questi ultimi non mutino mai aspetto. Come quel pupazzo metronomo dismorfico che, agitando un braccino snodato, fa apparire come per magia la scena di un tentato maschicidio. Dove la vittima è, forse, un uomo ma la sua essenza è quella di un fantasma: qualcosa che sfugge o sfuggirà a colei che lo ama e che, pertanto, sente il bisogno di crocifiggerlo, cristallizzarlo nella fissità di un ricordo prima che la vita lo corrompa. Prima che la bellezza alla fine della sua fioritura rifugga lo specchio di colei che lo guarda in età matura, provando estrema angoscia per l’arrivo immaginario di una rivale giovane e bella.
Sarti, santi e assassini. Coloro che cuciono la veste della festa nuziale e, poi, la lacerano giorno dopo giorno, osservandosi le ferite attraverso le proprie corazze violate. Toccando con mano incredula quei rivoli rosso sangue vivo che scendono dai loro visi, dalle braccia affaticate per il troppo stringere cose vuote e prive di significato. Ed è così che la tirannia dell’apparenza si vendica dei suoi creduloni, invertendo con commoventi e intensi colpi di scena i ruoli di vittima e carnefice. Fuoco e purificazione. L’atto, l’azione dello sciogliersi per poi rifondersi. Perché la materia emotiva non si crea né si distrugge. Perché la memoria è un navigante, un Ulisse incosciente che travalica ma non arriva, che spegne e riaccende le luci della coscienza come faro nel buio più fitto, illuminando a tratti il profilo scuro e inquietante della scogliera che nasconde e difende i suoi sconfinati spazi interni di natura incontaminata, come quella che abita, in fondo, nei sentimenti più nobili e puri di ciascuno di noi.
Aggiornato il 21 giugno 2017 alle ore 13:57