Un sogno da giullare   per Tiziana Foschi

Doppia veste per l’attrice Tiziana Foschi, che al Teatro dei Conciatori a Roma interpreta prima “Cibami” (dal 29 al 31 dicembre) miscelando un racconto di Stefano Benni, due di Cinzia Villari (sua anche la regia) e le musiche dal vivo di Piji (Pierluigi Siciliani), e poi “Lettere di Oppio” (dal 7 al 15 gennaio) di Antonio Pisu, insieme a lei sul palco per la direzione di Federico Tolardo. Le chiediamo di parlarcene.

Com’è nato “Cibami”?

Molti anni fa, ai Giardini della Filarmonica, per un progetto sulla cultura e sul cibo, poi l’ho fatto parecchio d’estate, nelle piazze.

Come si caratterizza?

Ha un ritmo incalzante, io mi muovo moltissimo, credo di perdere un chilo a sera perché salto da un tavolo all’altro; anni fa mi sono anche lussata una spalla e ne porto ancora le conseguenze. Ora che è esplosa la “food” mania me lo richiedono in continuazione, è una favola deliziosa, gotica, romantica, dura. I brani hanno un andamento musicale, e forse quelli scritti da Cinzia Villari sono anche un po’ più incisivi nella morale.

Con lei c’è anche un lungo rapporto d’amicizia.

Sono trentacinque anni che ci conosciamo, la stimo, scrive molto bene, è anche una bravissima attrice. Grazie a dio, all’epoca le ho forzatamente fatto fare questa regìa, perché è stata fondamentale nel rapporto col mio corpo: mi conosce, sa che mi devo esprimere ed ha anche un po’ limitato la mia motilità facciale, che andava in tutte le direzioni. Per mostrare un sentimento faccio tante espressioni, lei mi ha asciugato alcune cose ed esaltato delle altre che per timidezza non tiriamo mai fuori, perché qui in Italia - dove non c’è una vera industria dello spettacolo - manca una palestra per gli attori, che sono usati sempre per le loro classiche peculiarità, ma invece nascondono mondi. Nessuno investe in questo senso.

La presenza di Piji?

Ho voluto scegliere tutte le sue musiche e canzoni originali, sono contenta che sia un autore amato perché bravo e teatrale, uno “chansonnier”. Le sue sonorità mi entrano dentro, mi piace il suo modo di stare sul palco: è molto difficile trovare un musicista che abbia una presenza vera, di solito se non suonano escono di scena e non vogliono mai provare, anche giustamente perché le prove non sono pagate. Invece lui mi telefona, proviamo, mi piace il suo modo di stare dentro le cose, la sua grande voglia di far bene, e apprezzo la gente che considera questo un lavoro, dove si suda e non si prende in giro chi paga il biglietto.

Cosa ci dice di “Lettere di Oppio”?

È una commedia, scritta da Antonio Pisu che non aveva ancora trent’anni. Volevo qualcosa di contemporaneo originale, e lui ha tirato fuori un pezzo ambientato a Londra nel 1860, durante la guerra dell’oppio per il libero commercio. È la storia del rapporto tra una donna ricca londinese - a cui, da quattro anni, era partito il marito per combattere - e il suo maggiordomo, voluto fortemente dal coniuge e da lei mai sopportato. La donna è sempre alla scrivania con la penna in mano, e a un certo punto il meccanismo si rompe: il maggiordomo intercetta una lettera che annuncia la morte dell’uomo in battaglia e lui, avendo paura di perdere il lavoro, comincia a scrivere al posto del marito, ma lo fa male, in quanto non acculturato. Non si capisce se lei se ne accorga, fatto sta che il loro rapporto cambia in modo repentino. Si respira molto quel periodo con le sue inquietudini, il movimento femminista e la metropolitana, che nascono proprio allora a Londra. Sono curiosità storiche che abbiamo voluto mettere dentro, perché ogni tanto negli spettacoli bisogna avere queste sbocconcellature di erudizione, molto “en passant”. A un certo punto, il racconto ha una costruzione moderna, in cui entrano le voci-pensiero.

Dopo l’esperienza con la “Premiata Ditta”, quale è stato il suo percorso?

Mi sono catapultata nel teatro, soprattutto quello in grande rapporto con la musica, la quale per me è stata una scoperta fondamentale. Per carità, non disdegno cabaret ed esibizioni più facili, una volta Maurizio Battista m’ha detto: “Noi abbiamo avuto il bar, il repertorio non ci manca”. Però cerco soprattutto una drammaturgia contemporanea delle parole scelte. Mi affascina pensare che esistano persone che di mestiere passano mesi a cercare le parole giuste. Sentirmele poi in bocca è una grande soddisfazione. Quella e basta, perché il teatro appaga ma non paga, va finanziato.

Spazia quindi dal dramma alla commedia?

Questa distinzione dentro di me non l’ho mai sentita, perché come filo conduttore delle giornate a casa ho avuto sempre Gabriella Ferri; mi faceva molto ridere, però dentro ha un’amarezza un po’ romana da dove poi scaturisce la comicità, il grottesco. Come la famosa buccia di banana che fa inciampare: se uno ha settant’anni si rompe il femore, se ne ha venti ridiamo e basta. Non rinuncio alla ricerca di un piccolo spessore in più da poter raccontare con grande leggerezza. Come ci hanno insegnato, i giullari erano gli unici a poter sbeffeggiare il sovrano, quindi questo voglio fare nella vita: il buffone che dice cose.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28