La criminalità minorile nel film di Santoro

Le bande della droga, quelle di una parte consistente dell’adolescenza partenopea, vengono raccontate da Michele Santoro in un documentario che - dopo la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia - avrà un’uscita-evento in circa duecento sale il 6 e 7 dicembre. Per l’occasione, rivolgiamo alcune domande al giornalista/regista.

Di cosa parla “Robinù”?

Racconta la storia della formazione di bande di ragazzi giovanissimi, che a Napoli hanno preso il controllo delle piazze di spaccio e si ribellano anche al vecchio gioco di potere dei boss tradizionali, pretendendo di redistribuire la ricchezza che una volta essi accumulavano.

È stato un lavoro di squadra?

Ci sono voluti molti mesi, a partire dal “casting”, perché il carattere straordinario di “Robinù” sta nel fatto che siamo abituati a racconti di questo mondo fatti attraverso la fiction, oppure tramite le parole dei pentiti; stavolta, invece, a parlare sono dei ragazzi detenuti. Alcune mie collaboratrici, in particolare Maddalena Oliva e Micaela Farrocco, sono dovute entrare una nel carcere minorile, l’altra a Poggioreale, e creare un lungo percorso di empatia con quelli che poi sono diventati i protagonisti della storia.

Come ha avuto origine l’idea?

Dalla cosiddetta “paranza dei bambini” di cui parla anche Roberto Saviano (nel suo nuovo, omonimo libro, ndr), cioè quella banda di ragazzi che va a pescare i propri nemici e li stende: a sedici anni sono dei killer consumati, conducono la loro esistenza tra l’attività criminale e il carcere, a volte ai venti non ci arrivano nemmeno. In particolare, siamo partiti muovendoci attorno alla figura di Emanuele Sibillo, personaggio estremamente interessante perché in comunità di recupero aveva avviato un percorso che lo portò addirittura a dichiarare amore per il giornalismo; era una persona - anche dotata, dal punto di vista culturale - che a meno di diciotto anni si è trovato a diventare il leader della banda che pretendeva di prendere il posto della famiglia Giuliano. Con una capacità carismatica che non si era mai vista prima di allora, ereditò quindi quella funzione: aveva un controllo completo sullo spaccio, un rapporto con tutti gli abitanti della zona, e venne ucciso diciannovenne.

Il richiamo del titolo?

Mentre il film veniva presentato a Venezia, da una persona molto esperta di misteri riguardanti la Camorra mi è stato riferito che già Raffaele Cutolo, nel momento in cui decise di fondare la Nuova Camorra Organizzata, aveva per Robin Hood un’adorazione che poi è continuata nell’azione degli scissionisti - come ci racconta la serie televisiva “Gomorra” - e in quest’ulteriore evoluzione della “paranza”.

Che realtà avete incontrato e quali elementi vi hanno colpito maggiormente?

I ragazzi lavorano intorno allo spaccio di cocaina. Napoli in questo è la più importante piazza d’Europa: l’indotto di questa fabbrica del crimine coinvolge decine di migliaia di persone. Nella parte alta di questa piramide ci sono i boss, che accumulano grandi ricchezze, nella parte intermedia, nel controllo del territorio, ci stanno questi ragazzi, che per lo champagne, le donne, il potere, per spendere tutto in una notte fanno qualunque cosa, pronti ad ammazzare anche per una futile ragione. Sono cinici, spietati killer, però contemporaneamente quando vedono la mamma si sciolgono in lacrime, hanno una tenerezza straordinaria nei confronti delle loro donne, una commovente capacità d’amore, fanno figli a 14-15 anni, a 35 sono già nonni. Poi bisogna tener conto anche del fatto, secondo me molto importante, che ci troviamo di fronte all’unica grande città europea che mantiene ancora un elemento popolare nelle sue viscere, mentre ormai, in tutte le altre, i centri storici sono diventati dei “bed and breakfast”.

È una situazione incancrenita o ci sono possibilità di riscatto?

Le mamme, agli arresti domiciliari, lavorano diciotto ore al giorno - come operai nelle fabbriche - per vendere droga. Nessuno di noi può lecitamente pensare che, se avessero un’alternativa, farebbero la stessa vita rischiando di finire in galera. Per recuperare questo tessuto sociale, che potrebbe essere laborioso, virtuoso e civile, ci vuole però coraggio e uno stato sociale che in tutta Europa si va riducendo. A Napoli la cocaina ci regala uno stato sociale criminale, perché senza quest’attività non si saprebbe quali risposte dare a migliaia di persone.

Com’è andata la presentazione del documentario in carcere?

Una delle esperienze più belle della mia vita, incontrare detenuti che si commuovevano, partecipavano. Dopo la proiezione abbiamo discusso del film da persone libere, perché quando il cervello si libera l’uomo è libero, anche in una situazione così pesante riesce a volare, a pensare in modo diverso. I ragazzi insistono sul concetto che nei loro quartieri c’è il 50 per cento di disoccupazione, molti di loro hanno la terza media ma non sanno né leggere né scrivere. Una volta espulsi dalla scuola, diventeranno pure criminali, ma è altrettanto criminale lo Stato che di fronte al fenomeno dell’evasione scolastica non reagisce in nessun modo.

Aggiornato il 17 giugno 2017 alle ore 16:21