Un “Otello” moderno al Teatro Sala Uno

Attualizzazione dei classici: questo il progetto artistico della Compagnia Taheri e Zuccari, con Hossein Taheri e Paolo Zuccari (che firma anche la regìa) che hanno adattato il testo di William Shakespeare e lo interpretano insieme ad altri quattro attori. Una produzione del Teatro Eliseo, il loro “Otello” è al Teatro Sala Uno fino al 27 novembre. Ne parliamo con Taheri, che dà nuova vita al moro veneziano.

Nelle scorse due settimane avete portato in scena “Acque sporche”, liberamente tratto da “Il nemico del popolo” di Henrik Ibsen. Un bilancio?

Ha avuto molto riscontro di pubblico, la scommessa di fare un teatro che ha un forte connotato politico e civile rispetto alle tematiche che sceglie di raccontare dentro una “fiction” - una storia che ha anche emozioni, sentimenti - ha dato i suoi frutti.

In quale dimensione spazio-temporale avete collocato questo vostro “Otello”?

Anche qui abbiamo spinto fortemente su una contemporaneità della vicenda, ambientandola sul finire degli anni Ottanta, immaginata in una Cipro in stato di assedio. Dentro una sorta di bunker militare, fra tre coppie - Bianca e Cassio, Iago ed Emilia, Otello e Desdemona - si consuma una storia d’amore sotto le bombe. Così, riesce a dare anche delle suggestioni visive notevoli e poi, per certi versi, toglie quella patina di “antichità” che il testo si porta dietro. Ad Otello abbiamo voluto dare una caratterizzazione mediorientale molto forte, come pure al tentativo - da parte di questo apprezzatissimo generale - di integrarsi, fino a diventare più veneziano dei veneziani stessi. A un certo punto avviene una frattura, per la volontà di andare fino in fondo nella storia d’amore con Desdemona e per la diceria sporca di Iago che mette un germe dentro la coppia. Nella messinscena è come se si fosse già predisposti al finale così estremo dell’omicidio per gelosia; è come se i personaggi portassero già in sé i presupposti di questa conclusione.

Ecco, e proprio riguardo alla caratterizzazione dei ruoli?

C’è stato un lavoro sull’analisi dei personaggi, su cos’è il sentimento amoroso in tempo di guerra e su cos’è un pregiudizio: da una parte quello di non sentirsi all’altezza della situazione, non completamente accettati, e dall’altra l’atteggiamento verso lo straniero, considerato – malgrado tutto quello che sa fare, e i suoi attestati di fede – pur sempre uno straniero e basta. Sono quindi dei temi che stiamo dibattendo anche adesso nella società civile, rispetto all’integrazione. Lo vediamo nella cronaca, addirittura rispetto alle terze generazioni, nate e cresciute nei Paesi europei: a un certo punto accade qualcosa nella testa e nei sentimenti di queste persone, ed è lo studio che stiamo cercando di portare avanti.

A questo proposito, cosa ci dice della compagnia?

Abbiamo messo su un gruppo molto giovane, con attori che si avvicendano nei vari spettacoli. Noi più anziani - parliamo di una generazione di cinquantenni - stiamo cercando di fare un lavoro sia sulla drammaturgia, sia su un allestimento scenico essenziale, che porti verso la concretezza, verso una riconoscibilità immediata di quello di cui stiamo parlando, senza troppi fronzoli e voli pindarici. Se, per esempio, questo ci fa perdere qualcosa rispetto alla visionarietà di un autore come Shakespeare, però poi ce lo restituisce nel rapporto con il pubblico, che si identifica facilmente quando le storie sono talmente belle per cui ci si entra dentro. Questa scelta a monte richiede grande rigore, disciplina, prove, deve essere tutto calibrato per non far qualcosa di stonato, fuori posto.

Un tipo di lavoro che sta avendo dei riscontri?

Anche persone che non amano andare a teatro ogni sera, ci dicono: “Sono entrato in una storia, e ad un certo punto sembrava di stare dentro un film”. Questo significa che un obiettivo in parte è stato raggiunto, poi vorremmo avere più possibilità di parlare alla gente, incontrare un pubblico vario, il tentativo è proprio quello di riavvicinare al teatro in un rapporto nuovo, che non sia quella roba un po’ stantia che purtroppo si vede nella gran parte delle sale della nostra città. Stiamo cercando di riprendere una relazione dialettica, vitale, con gli spettatori.

Dallo scorso anno, è il vostro terzo appuntamento al Teatro Sala Uno. Che rapporto avete con questo spazio?

Controverso, dolorosamente sentimentale; è una sala che ho fondato insieme ad altri sul finire degli anni Novanta, poi me ne sono un po’ allontanato perché ha scelto di fare quello che molti teatri romani fanno, cioè una sorta di affittacamere. È un luogo meraviglioso, una chiesa sconsacrata, che impone un’intensità emotiva, non ti permette di barare. Il problema, poi, è che le sale non hanno più la possibilità di andare avanti, non riesco a capire le scelte delle amministrazioni: vogliamo valorizzare i luoghi di cultura o vogliamo continuare a tenerli come spazi “ad ore”, generici, cui il pubblico fa fatica ad affezionarsi? Certo non è così per tutti, ci sono teatri che stanno cercando di fare una politica diversa, rilanciati dai giovani, però ci vuole un investimento culturale, molto sentimentale.

(*) Per info e biglietti: Teatro Sala Uno

Aggiornato il 17 giugno 2017 alle ore 16:20