Quando le parole   sono importanti

Un aforisma, un commento - Secondo Luigi Pirandello, la difficoltà del comunicare ci costringe spesso a “trovare una parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta”. Lo scrittore e drammaturgo Giuseppe O. Longo scrive “Le parole non dicono nulla, eppure abbiamo solo parole”. Il linguista Tullio De Mauro sottolinea “il divario tra la mutevole, ricca pienezza dell’esistere e la povera ripetitività della parola umana”. Nella società attuale, tuttavia, la parola, generica, indefinita e rabberciata, è ovunque e dilaga come un virus.

Già, l’acquietarsi cui fa cenno Pirandello è sicuramente l’obiettivo che ci si prefigge quando, comunicando, desideriamo concludere un pensiero o sistemare un dubbio per poter procedere. In questo modo l’essere umano riesce a sopravvivere in mezzo all’incertezza tentando di consolidare le proprie piccole certezze. Tuttavia, in una società come l’attuale la comunicazione di massa è straripante di parole e il silenzio è vissuto come un errore, invece che una pausa sulla cui importanza persino la musica fornisce preziosi insegnamenti.

Ecco quindi circolare e diffondersi a macchia d’olio espressioni del tutto inutili, scorrette o del tutto prive di significato certo e condiviso. Si prenda l’espressione “piuttosto” che ha preso il volo da qualche tempo e molti, ma fortunatamente non tutti, usano come non si trattasse di una formula avversativa, generando possibili equivoci: se uno dice “andrò in automobile, piuttosto che in treno” cosa vuol dire? C’è poi il “comunque”, impiegato come intercalare universale. Un giorno, durante l’esame, ho conteggiato ben ventotto “comunque” da parte di una studentessa, a cui l’ho fatto notare. Per qualche secondo se ne è astenuta, per poi ricominciare recuperando ampiamente. Grande successo ha ora l’espressione “ci sta” usata per affermare la propria condivisione di un giudizio o di un parere come fosse una scatola di scarpe che, nell’armadio, appunto, “ci sta”. Non si sa da quale contesto linguistico essa prenda le mosse (forse da una trasfigurazione dialettale proveniente dal Sud italiano) ma è certamente brutta e sostituibile da più corrette “sono d’accordo” o “è accettabile”. Un richiamo speciale ha poi il termine stradale “percorso”, che dovrebbe alludere, chissà perché, a programmi o progetti ben studiati e rassicuranti come un viaggio ben preparato.

Per non interrompere il parlato ed esibire tremendo silenzio, percepito come imbarazzante, per qualche decimo di secondo, ecco poi il virus della tripletta “come dire”, “voglio dire”, “devo dire” formule inutili adottate a mo’ di cerniera, al pari del “detto questo” d’ordinanza talvolta sostituito dal “detto ciò” e dal più volitivo “punto”. Vi è poi l’ampio capitolo dei termini tratti dall’inglese e non di rado storpiati come è per la parola “suggestione”, usata come si avesse antipatia per la più italiana “suggerimento” (dall’inglese “suggestion”) e trascurando il significato strettamente psicologico del termine italiano originario.

Le parole, inoltre, sono sempre più percepite come segni distintivi a testimonianza della propria raffinatezza. Così, non esistono più “problemi” bensì “problematiche”, non più “temi” ma “tematiche”. Persino i “tipi” sono stati soppiantati dalle “tipologie”, trascurando il fatto che questa espressione indica lo studio dei tipi o l’insieme di più tipi e non uno solo, come indica con chiarezza la parola “tipo”. Al termine “struttura” e “cultura” ho già dedicato altri commenti, ma non rinuncio a sottolineare come, anche in questi giorni a seguito del terremoto, si parli continuamente di “strutture alberghiere” invece che, più semplicemente, di alberghi.

Certo è che definire la nostra come la società della conoscenza sembra inappropriato e sarebbe meglio definirla come società della parola. Peccato che lo spazio dedicato ai concetti, invece, appaia sempre più ristretto. Forse aveva ragione Shakespeare quando sosteneva che “gli uomini di poche parole sono gli uomini migliori”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34