La mindfulness va via come il pane nei corsi di formazione aziendali, al punto da essere diventata un business stratosferico per chi di seminari e di formazione ci campa. Ma cos’è la mindfulness? Una disciplina molto efficace, impastata di tradizioni oriental-buddiste e di sano pragmatismo anglosassone con la quale si addestrano le persone a vivere focalizzate sul qui e ora senza farsi distrarre dal turbinio di pensieri, preoccupazioni e paranoie della frenetica contemporaneità. C’è qualcosa di male? In linea di principio no. La mindfulness è solo l’ultima arrivata di una serie di metodi per il dominio di sé, per l’autocontrollo, per la gestione delle emozioni, per la sana comunicazione con se stessi e con gli altri che, da qualche decennio, satura il mercato dell’offerta formativa. Si va dalla programmazione neurolinguistica all’analisi transazionale, dall’intelligenza emotiva alla psicocibernetica. Tutte tecniche e saperi ruotanti intorno alla sfera della psicologia cognitiva e comportamentale e miranti a fornire alle persone mezzi spiccioli, rapidi e indolori per affrontare il maledettissimo mondo della competitività senza farsi contagiare dal suo carico morboso di stress. E funzionano? Eccome se funzionano. Altrimenti i colossi multinazionali mica vi si butterebbero a pesce.
Torna la domanda malandrina: c’è qualcosa di male? Forse che sì, forse che no, direbbe D’Annunzio, ma, a essere sinceri, più sì che no. La mindfulness e le sue sorelle, infatti, andrebbero misurate e valutate non solo in ragione della loro utilità intrinseca, ma in quanto eccezionalmente funzionali a perpetuare un sistema malato. Esse, infatti, insegnano alle persone ogni genere possibile e immaginabile di pensieri adattivi e quindi sono appetite da chi lo stato delle cose non lo vuole cambiare, ma mantenere. Mindfulness & sisters persuadono i soggetti bersaglio (di solito impiegati, quadri e dirigenti subordinati, a busta paga di chi paga i corsi) a stare quieti, a lavorare su se stessi, a diventare più proattivi, resilienti, flessibili. In una parola, proni alle logiche della matrice competitiva nei tentacoli della quale cui i lavoratori lavorano e, va da sé, producono. Tali strategie hanno un lodevole obiettivo dichiarato (aiutarci a stare meglio con gli altri, a fare squadra, a marciare in team) e un malevolo proposito non dichiarato (impedirci di ragionare in modo critico, dialettico e antagonistico). La loro strepitosa manipolazione consiste nel convincerti che non è il mondo a essere sbagliato, sei tu che non lo capisci. Quindi, se implementi l’autoconsapevolezza e la molto orientale rassegnazione al sistema castale dell’Evo Competitivo le cose cominceranno a sembrarti meno brutte di quanto effettivamente sono. Sarai uno schiavo, certo, ma uno schiavo felice.
Come dice quel famoso detto zen: prima dell’illuminazione, spaccare la legna, dopo l’illuminazione, spaccare la legna. Ecco perché il mondo turbo capitalistico odierno adora da pazzi l’approccio yogico dei lavoratori al giogo aziendale: produce automi che non rompono i maroni.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:31