“The Danish Girl”:  quando il corpo parla

“The scarf soul” (L’anima nella sciarpa). Così dovrebbe essere ribattezzato il film “The Danish Girl”. Tipo, “La fine è il mio inizio”. Si lascia questa terra per un viaggio senza ritorno, sempre. Prima o poi, per tutti noi. Partire dall’ultima scena - illustrata da un paesaggio che lascia senza respiro, mille volte dipinto dal protagonista - è utile a dare un senso a una visione conturbante, in cui dominano gli effetti assai poco speciali della trasfigurazione di un uomo e marito, in una donna e sorella di sua moglie. Basterà un banale trucco e l’indossare casti vestiti femminili degli anni 20/30 del secolo scorso.

Ma la narrazione, quella vera, unica e dominante, appartiene all’Amore Assoluto. Quell’entità degli umani sentimenti, cioè, che non ha spiegazione alcuna, oltre a sé stessa. Non ha un sesso in particolare e li ha tutti contemporaneamente. Perché quel tipo di sentimento rimane un oggetto esclusivo della mente. Si parte dall’arte, dalle sue eccentricità, rotture epocali, dissacrazioni e dissolutezze di ogni segno, per narrare un destino umano attraverso la pittura di lui e di lei.

L’inizio della trasformazione è la rottura del guscio: laddove ti aspetti un pulcino maschio trovi un’allodola femmina. Nata senza ali. Pienamente donna nei suoi circuiti cerebrali, ma bellissimo uomo dipinto su quelle pareti ovoidali, sottili come capelli. Ed è sufficiente un gioco infantile, un travestimento con scarpe e calze da ballerina per infrangere una pellicola sociale e comportamentale che il suo possessore credeva un tutto, ma che gli si rivela all’improvviso come un nulla, in buona sostanza. Ed è questa trasfigurazione, lenta inesorabile, senza più fari per il ritorno nel golfo tranquillo e in quiete delle antiche abitudini, a stravolgere un menage perfettamente funzionante di una giovane coppia che fa all’amore sfruttando ogni occasione utile, pur di avere un figlio da crescere. E, invece, a divenire un gigante sarà proprio l’infelicità di lui, il paesaggista Einar Wegener, detto/a “Lili”, sposato alla ritrattista Gerda Wegener, che dominerà l’impianto narrativo, assorbendolo come farebbe una macchia di petrolio per distruggere un fastidioso parassita.

Nera è la notte e assai oscuro è il giorno per colui che intende rimediare con strumenti grossolani all’errore di Madre Natura. Non è sufficiente travestirsi da donna, spiare da voyeur - dietro un vetro trasparente - provocanti prostitute per imitarne i gesti e catturarne la femminilità debordante, provocante e lasciva. Non basterà scambiarsi baci e far innamorare di sé un altro pittore omosessuale, nonostante la presenza di una innamoratissima Gerda mai rassegnata a questo orribile scherzo del destino. No, Einar sogna, vuole e pretende di essere “penetrato”, di avere lo stesso organo sessuale di sua moglie, di sposare un uomo come lui fu e regalargli dei figli. Un po’ troppo, ovviamente, visto che occorreranno ancora molti decenni per arrivare a forzare l’anatomia fino a quel punto. Lili, come immaginabile, condotta in cliniche per disturbi mentali subisce l’intera trafila di un dolore che non può passare, malgrado tutte le cure conosciute. Non resta che l’azzardo: sottoporsi al primo tentativo al mondo di “riassegnazione sessuale”. Assistito fino alla fine da Gerda, eroica oltre l’umana forza, e dal suo primo amore (non ricambiato) maschile Hans, eterosessuale e innamorato di Gerda.

Da vedere. Con animo robusto e osservando molto oltre le apparenze.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34