Timi, la costruzione di un attore

(L’intervista che segue, a cura di Francesco Pacifico, è pubblicata per gentile concessione di Vivaverdi, house organ di Siae).

Ci incontriamo un’ora prima che vada in scena al Teatro Parenti di Milano, dove ha interpretato dal 28 gennaio al 24 febbraio i tre ruoli maschili di “Casa di bambola”, il capolavoro di Henrik Ibsen di fine Ottocento e manifesto della liberazione della donna che continua a far riflettere più di un secolo dopo. In un disimpegno sul retro del Parenti c’è un tavolo rettangolare di fronte a dei distributori automatici. Il tavolo sembra preso dalla scenografia di un interno di casa borghese. Ci sediamo lì, uno di fronte all’altro, a parlare per un’ora di come si diventa attori. L’occasione di Casa di bambola è perfetta: i tre ruoli interpretati in scena senza soluzione di continuità fanno porre spontaneamente la domanda su come si formino il corpo dell’attore, la sua voce, la sua presenza.

Come si crea un personaggio?

Il personaggio è come il principe azzurro. Tu sei Biancaneve, dormi e aspetti. A un certo punto arriva il principe azzurro e ti dà un bacio: è lì che succede tutto. Io lavoro moltissimo con le immagini. Ma si comincia dal lavoro di testo: Andrée ha riscritto il testo, essenzialmente ritraducendolo. Ma il lavoro più importante è stato eliminare i preconcetti. Andare a togliere.

È in quel momento che sente il bacio del principe azzurro?

No, no. Quello è il momento in cui ci si addormenta. Si incominciano a filtrare i sogni. È in quel momento che incomincio a creare delle immagini con cui trovare la voce di un personaggio. Ne Il trattato della pittura di Leonardo da Vinci c’è una frase bellissima: “Bisognerebbe pensare con le immagini”. Significa che bisogna pensare all’interno di un discorso complesso, mirando a creare un universo.

Nel Casa di bambola di Andrée Ruth Shammah, Timi interpreta i tre ruoli maschili. È Torvald Helmer, marito di Nora. È il dottor Rank, l’amico di famiglia molto malato che gira per casa ed è innamorato di Nora. E infine è Krogstad, il faccendiere a cui Nora chiese un prestito durante un esaurimento nervoso del marito, per poter pagare un soggiorno terapeutico in Italia: il debito di Nora con Krogstad mette in moto gli eventi che la porteranno a emanciparsi dal marito.

Ho immaginato questi tre uomini come fossero tre fiumi. Le loro anime sono fiumi. Forse è successo perché mi sono fatto crescere i baffi come li avevo nel film di Bellocchio – Vinceremo. In quel film ero ossessionato dal fiume nero che dovevo andare a trovare per Mussolini. Ricresciuti i baffi, ho ricominciato a pensare ai fiumi. Krogstad è uscito fuori come un fiume in piena, impetuoso, con dei gorghi sotterranei, un fiume che arriva dai vulcani, ribolle, ma è pure ghiacciato, limpido. Ed è inaccessibile, sotterraneo. Poi c’è il dottor Rank: un fiumiciattolo puro in secca. Come se ci fosse solo il letto del suo fiume.

Torvald Helmer che tipo di fiume è?

Torvald Helmer è il Po. Il Po è un po’ pulito. Helmer è un personaggio ragionevole. È un fiume contenuto anche quando straripa.

Per interpretarli si veste sempre uguale?

I pantaloni, le scarpe e il cravattino sono sempre quelli. Mi cambio la giacca. I personaggi sono differenti perché cambiano le energie. Che siano tre uomini diversi non è un problema. Chiunque ha dentro di sé almeno tre uomini, se no sei proprio… che sei?

Ha studiato flautofonia e canto armonico; teatro danza; ha riscritto Shakespeare in dialetto perugino; ha pubblicato un romanzo autobiografico scritto a quattro mani con Edoardo Albinati (Tuttalpiùmuoio, Fandango 2006, ndr). Come si comincia, da giovani, a costruire il corpo con cui recitare?

Accettandolo. Credo che una voce, un corpo, si cominci a costruire prendendolo per ciò che è, non contrastandolo. Io fino a vent’anni avevo già un corpone. Ero un gigante col quarantasette di piede, la faccia grossa, eccetera. Però mi vedevo ancora come quando avevo undici anni. Poi un giorno Giorgio Barberio Corsetti mi ha detto: “Filo, sei grosso, sei un cristone”. E quindi ho acquistato il corpo. E da lì ho cominciato a crescere. Cioè crescere nel corpo vuol dire ascoltarlo. Vuol dire capire che i limiti sono un valore. Tutti i limiti che avevo, dalla balbuzie alle altre cose, erano lì per un motivo, magari per superarli o magari per accettarli.

E la voce?

Scopri molto presto che la voce ha un corpo, e lì io ho avuto la fortuna di conoscere Bruno De Franceschi, che è un compositore, un musicologo: è stato un maestro per me. Con lui ho cominciato un percorso proprio di studio di flautofonie, di diplofonie alla Demetrio Stratos.

Perché ha cominciato?

Perché volevo essere Demetrio Stratos. Parlo come lui. Lo imito.

Quanti anni aveva?

Diciassette, diciotto. Volevo diventare come lui. A diciannove anni mi sono diplomato, col massimo dei voti: ero bravissimo a scuola. Da quando avevo quindici anni scrivevo poesie. Volevo diventare Rimbaud. E con “Gli amici della fantasia”, il gruppo parrocchiale, mettevamo in scena delle barzellette. Ma la cosa più importante era l’amore per Stratos.

Qual è stato il primo contatto col teatro vero e proprio?

A vent’anni. Andai al centro di teatro sperimentale di Pontedera per accompagnare un amico. Venni preso io e non lui. Era un corso di sei mesi, con vitto e alloggio. Non mi importava del teatro, ma non sapevo che fare della mia vita. A Pontedera potevo andare al bar con Thomas Richards, il delfino di Grotowski. Vedevo che ero portato, non mi affaticava. Anzi, mi affascinava. Lì scoprii Artaud, Eliogabalo. Perché mi dissero “Ispirati ad Eliogabalo”. E io “Eliochi?”. Scandalo. “Non conosci Artaud?”. Non lo conoscevo. Ma non mi sono mai vergognato - neanche oggi mi vergogno - di chiedere ‘Ma chi è quello?’ O ‘Cosa vuol dire quella frase?’ Mi piace imparare.

E il teatro danza?

L’ho scoperto a diciotto anni, con uno stage per Julie Anne Stanzak, ballerina di Pina Bausch. Non avevo i soldi per proseguire con quello che volevo fare e quindi…

Cosa voleva fare?

Lo stilista.

Ne ha scritto in Tuttalpiùmuoio.

Da piccolo volevo diventare tre cose: Papa, stilista e attore. La incontrai così: lessi un volantino in una palestra di Perugia. A quel punto ero già innamorato di Grotowski, Carmelo Bene, Stratos… In queste cose c’è un contagio, una cosa porta a un’altra. Stanzak venne a fare un laboratorio, partecipai. E scoprii la libertà.

Cosa le ha dato il teatro danza?

La libertà. Ma anche il parametro. Avrei perfino potuto provare ad andare al Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch. Mi sono censurato...

Per fare il ballerino?

Sì. Ma ho detto: e la preparazione? Il corpo? Insomma, ho avuto fifa.

Un’altra cosa importante nella sua recitazione è il dialetto.

Se la danza è libertà, il dialetto è il sangue, il fango. Leonardo Da Vinci dice: “Bisognerebbe pensare per immagini”. Io dico: “Bisognerebbe dirsi le cose in dialetto”. Perché hanno un sapore… Il mio dialetto odora di salsicce di maiale, di torta al testo di mia madre che piange, della varichina che corrode le mani… Mi porta un calore, una famiglia, che è un tutt’uno nei paesi. Quando sono arrabbiato, guardo il mondo e penso: “Dai, abbiamo tutti un dialetto”. Anche quello è un corpo. È per questo che mi piace.

Come avete lavorato al romanzo insieme a Edoardo Albinati?

Sono arrivato con ottocento pagine scritte. Erano anni che lavoravo con Giorgio (Barberio Corsetti, ndr) sulla drammaturgia dei suoi spettacoli. Con Giorgio improvvisavo. Preparammo Il Paradiso perduto di Milton così: io ero Satana e il primo giorno di prove mi disse: “Improvvisa”. “Cosa?” “La prima scena”. Non dovevo raccontare chi ero. Dovevo far capire chi avevo davanti, dov’ero, in che momento della pièce. Dopo dieci anni di questo tipo di lavoro viene una dimestichezza con i dialoghi. Ho scritto l’ultimo capitolo di Tuttalpiùmuoio - la scena del matrimonio - in otto ore.

E il lavoro a due, come funzionava?

Io un po’ parlavo, lui trascriveva, poi prendevo il file e lo riscrivevo io. Su altre cose era lui a costringermi a lavorare: “Questo capitolo è bello, riscrivilo perché così non funziona”. Mi ha fatto da regista. Ho imparato tanto. È bravissimo. È stata un’esperienza. Ci conoscevamo da sei anni. Dormivo in una stanza del suo studio. Eravamo amici. Eravamo una strana coppia assurda. Il gorilla e il chirurgo. Lui ha una energia completamente diversa dalla mia. Quando gli feci leggere le mie pagine, lui disse: “Guarda, è tanta roba, ma ci sono un sacco di diamanti. Cominciamo a lavorarci”. È lui che mi ha scelto. È Bellocchio che m’ha scelto. Non sono io che sono stato ad aspettarlo.

Per concludere: farete altre cose di Ibsen al teatro Parenti?

Il prossimo anno torniamo al Parenti in tournée. Casa di bambola è talmente sold-out che siamo costretti…

Bello.

È meraviglioso. Portare i soldi al teatro.

A Milano al momento va così poca gente allo stadio che ce n’è di più a teatro.

Porca miseria.

Poi il teatro paga, non esiste pirateria.

Si dice che nessuno va più a teatro. Invece, almeno nei miei ultimi spettacoli, colgo una forte e massiccia presenza di pubblico. Io che non uso i social network, sento il bisogno di un contatto umano, e il teatro, a differenza del cinema, riesce a regalartelo grazie al “qui, ora e immancabilmente”. Il teatro ha la prerogativa del live: è questo che cercano le persone. Per fortuna piratare il teatro non è possibile. Il teatro è una forma d’arte che non lascia spazzatura. O lo vedi lì, o non lo vedi. Per quanto riguarda la pirateria nel cinema, il discorso è molto più complesso…

Nel teatro c’è il corpo, è lì.

Io devo ammettere che questo spettacolo per me è un incontro di pugilato. Ma fisico. Proprio con i sentimenti. Mi arrivano dei cazzotti al cuore… Sul palco hai tre ore per far rivivere una storia scritta nell’Ottocento, che è un classico e dunque ha radici profondissime… Se un classico si arrabbia, se comincia a morderti, ti maciulla.

Cosa la colpisce?

Magari una battuta ti esce un modo per cui il sentimento non scatta troppo forte. Oppure al contrario ti tocca in profondità, ci entri troppo.

Allora ogni sera è diverso?

Sì. Due sere fa ero proprio ko. Mi hanno tirato su, alla fine. Non sono neanche andato a cena. Ko. Sono andato a casa a piangere. In generale, sei sempre scoperto. Metodo Stanislavski: per entrare in scena devi essere innamorato. E quando uno è innamorato è scoperto: ha voglia di farsi toccare. L’attore è scoperto, sennò che attore sei?

L’altra sera cosa l’ha colpita?

Una serie di cose. La cosa più forte viene da chi è in scena con te: magari una battuta di un altro attore ti arriva in un modo più forte del solito.

Quindi l’attore è in scena, aspetta la battuta dell’altro attore e non sa come reagirà?

Uno prova a schivare i colpi. Ci sono vari livelli. Quello che succede lì in scena. Poi il testo, quello che dice la storia letteralmente. E c’è anche il pubblico. Perché si parla di magia del teatro? Perché quando succede, ragazzi, è magico.

È indecente.

È indecente. E però te lo ricordi per sempre.

E quando invece non scatta la magia?

Ma uno ci prova… È talmente tosto. Il pubblico cos’è che vede in scena? Degli attori che ci provano, che hanno fatto un percorso: svegliare un classico in noi stessi, svegliare quella complessità di sentimenti. Perché con i classici non si tratta di sotterfugi: sono degli abissi. Alcune sere, il nostro lavoro arriva. Alcune sere, c’è e non arriva. Altre, magari, arriva in un altro modo, che non ti aspettavi. La mia esperienza da dentro non è pregiudicante per il pubblico. A volte io chiedo “ragazzi, ma si vede?” Ma di fronte a un testo classico, se sei onesto, se non lo prendi per il culo, il testo ti protegge. Non si sa perché, forse è la buona fede…

Se un attore è in buona fede sta sulle spalle del testo?

Se sei in buona fede, sì. Assolutamente. E quindi io punto su quello. È un metodo che seguo in ogni aspetto della vita: mi rende più felice.

 

(*) Fonte Vivaverdi

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:30