Uno dei campi più importanti e potenti della società americana, il sistema giudiziario, ha visto e vede un numero molto elevato di italoamericani di successo. Questo è molto importante, perché significa che non solo sono stati in grado di raggiungere il successo economico, come abbiamo già visto; ma che hanno anche guadagnato la fiducia del popolo americano, essendo avvocati o pubblici ministeri o giudici, dal livello locale fino alla Corte Suprema. Per affrontare questo argomento incontriamo uno di questi italoamericani di successo: Francis Donnarumma, avvocato e segretario generale del National Italian American Bar Association e Past President del Connecticut Italian American Bar Association.
Francis, qual è la storia della tua famiglia italiana, e quando diventa una storia italoamericana?
La storia della mia famiglia inizia sulla cima di una montagna, in Italia, in provincia di Avellino. Si tratta di una tipica storia. Francesco Donnarumma, mio nonno, nacque nella città di Frigento e l’altro mio nonno, Michele Giordano, nacque sulla cima della stessa montagna, nella città di Sturno. I due giovani - avevano dodici e quattordici anni - lasciarono l’Italia e vennero negli Stati Uniti intorno al 1910. Non si conoscevano, in Italia, e arrivarono entrambi a Waterbury (Connecticut). Il caso volle che il figlio di Francesco, mio padre Carmine, incontrò la figlia di Michele, mia madre Louise, e si sposarono. Molti italiani arrivarono a Waterbury perché in quel momento le fabbriche cercavano disperatamente manodopera. La popolazione totale della città era di circa 30mila persone e nel corso di venti o trent’anni furono circa 10mila gli emigrati provenienti dall’Italia che arrivarono a Waterbury, spinti dalla povertà nell’Italia meridionale e dall’economia che cresceva invece qui negli Stati Uniti. Mio nonno Francesco divenne un macellaio, mio nonno Michele divenne custode della scuola, e così nacquero i loro figli, mia madre e mio padre. Mio padre, Carmine, studiò a New York e poi iniziò la carriera accademica alla Fairfield University, un’istituzione gesuita. Fece tutta la sua carriera lì e al momento del suo pensionamento l’Università ne riconobbe le doti nominando “Donnarumma Hall” il palazzo degli uffici della facoltà. Quasi tutti gli altri edifici hanno il nome di alcuni santi, quindi fu davvero un grande onore.
All’inizio dell’emigrazione di massa, gli americani avevano una bassissima considerazione degli italiani emigrati negli Stati Uniti. Ora abbiamo due italoamericani giudici della Corte Suprema e altri importanti italoamericani in tutti gli Stati Uniti sono giudici di successo, pubblici ministeri e avvocati. Come hanno fatto queste persone a diventare così importanti e stimate?
Ho letto un gran bel libro sui primi italiani a Boston, “The Boston Italians”. L’autore è Stephen Puleo. Tra gli altri, rintraccia un italiano che arrivò da Salerno prima del 1900, James Donnarumma, che poi fondò un giornale chiamato “La Gazzetta”, ancora oggi pubblicato dalla nipote, Pamela Donnarumma. L’autore racconta degli abusi e degli stereotipi negativi diretti verso i nostri antenati al momento dell’arrivo negli Usa. I giornali li descrivevano come simili a scimmie o scimpanzé. I funzionari pubblici dell’epoca davano per scontato che tutti loro avessero una naturale propensione alla violenza. In risposta, credo, gli italiani di quella generazione che arrivarono qui furono spinti a lavorare di più di chiunque altro, per preservare le famiglie coese ed essere assimilati nella società americana. Durante la Seconda guerra mondiale, gli italoamericani si arruolarono e combatterono nelle forze armate americane in numero proporzionalmente molto maggiore rispetto a qualsiasi altro gruppo di immigrati. Dopo la guerra, i giovani sopravvissuti, sparsi in tutti gli Stati Uniti, raggiunsero il successo in ogni campo di attività. Mio nonno, Michele Giordano, combatté nella Prima guerra mondiale nell’esercito degli Stati Uniti. Era guidato dalla volontà di diventare americano. Non aveva perso la sua identità italiana, ma voleva servire il suo nuovo Paese. Più tardi divenne un leader nazionale tra i veterani di guerra italoamericani, fino ad essere nominato vicepresidente della loro associazione nazionale.
C’è un italoamericano che secondo te può rappresentare perfettamente il contributo degli italoamericani al sistema giudiziario americano?
C’è una qualità di umanità e di apertura che credo sia davvero distintiva tra i giudici italoamericani. Qui nel Connecticut, nella nostra organizzazione Connecticut Italian American Bar Association (Ciaba), abbiamo diversi giudici: Richard Marano, Salvatore Agati e Alice Bruno. Credo che la loro origine italiana dia loro una grande capacità di identificarsi con le parti in causa nei confronti delle quali devono decidere. C’è la volontà di vedere la realtà al di là dei fatti rappresentati, ovviamente applicando la legge ai fatti, ma anche cercando di comprendere le persone per chi sono. Effettivamente c’è una figura storica, per rispondere alla tua domanda: Sua Eccellenza John Sirica. Sirica nacque nel 1906 nella mia città, Waterbury. In quegli anni non molti italiani erano in grado di studiare e, quindi, in seguito diventare avvocati. Lui ci riuscì e, in seguito, fu nominato giudice della Corte Distrettuale di Washington D.C. Si occupava di giustizia penale. Quando il presidente Richard M. Nixon fu coinvolto in quello che ormai tutti riconoscono come un comportamento gravemente illegale, alcuni dei collaboratori di Nixon furono chiamati a deporre dal giudice Sirica. Egli fu molto criticato per l’aggressività dello stile che tenne nel suo interrogatorio. Per quanto io abbia compreso, era uno stile simile a quello inquisitorio della magistratura italiana, dove i giudici sono molto attivi nell’esaminare i testimoni. Qui la consuetudine era un po’ diversa, così il giudice Sirica fu spesso criticato e incolpato di aver esagerato e di essere troppo coinvolto. In realtà, nel corso del Watergate, Sirica fu molto aggressivo, seguendo quello che era sempre stato il suo stile, perché sapeva che la verità non era ancora stata rivelata. Alla fine, prese la decisione critica - nel caso noto come Stati Uniti contro Nixon - di ordinare all’Amministrazione Nixon di consegnare i nastri segreti, che alla fine risolsero il caso. La sua decisione fu immediatamente oggetto di appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che però confermò la giustezza della coraggiosa decisione di Sirica. Questa è la bellezza della storia degli italiani negli Usa: la famiglia Sirica arriva dall’Italia a Waterbury; il loro figlio va a scuola, fa un buon lavoro bene e onestamente, e si ritrova in una tempesta politica e giuridica che ha consumato il nostro Paese; e lui agisce con coraggio e afferma con successo il primato della legge sull’uomo più potente della nazione. Sirica è davvero una figura eroica.
Tu sei il segretario generale del National Italian American Bar Association, Niaba. Quanti sono gli avvocati italoamericani membri di questa istituzione e quali sono le vostre principali attività? Esistono comitati locali?
Niaba esiste da più di trent’anni ormai. I nostri numeri stanno cambiando, quello che posso dire è che le persone con cui stiamo comunicando regolarmente certamente sono almeno cinquemila, e sono distribuite in tutto il Paese. Niaba è stata progettata per essere una associazione indipendente, non abbiamo filiali in tutto il Paese ma ci coordiniamo con le altre associazioni: il Ciaba nel Connecticut; gli Italian Lawyers of Los Angeles nella California del Sud; e presto incontreremo un’associazione simile nella zona di San Francisco, e un’altra ad Orange County (California). I nostri vertici provengono dagli Stati Uniti - California, Florida, New England, Illinois e molte altre città - ma anche dal Canada e dall’Italia. Quello che facciamo è promuovere gli avvocati italoamericani: fare networking è il nostro più diretto beneficio. Lavoriamo con le facoltà di legge, pubblichiamo un bollettino che fornisce informazioni su avvocati e giudici italoamericani. Abbiamo una pubblicazione accademica chiamata “The Digest”, pubblicata con l’aiuto del professor Robin Malloy della Syracuse Law School di New York. Ci muoviamo: riuniamo i nostri consigli di amministrazione in varie parti del Paese. Abbiamo avuto il nostro primo seminario a Roma nel mese di ottobre di quest’anno, e c’erano 25 americani e 18 avvocati italiani presenti.
Tu sei anche Past President del Connecticut Italian American Bar Association, Ciaba. Ci sono molti giudici, pubblici ministeri e avvocati italoamericani nel Constitution State?
Sono stato presidente di recente, per tre anni. Sono il primo avvocato del Connecticut eletto ad una delle quattro cariche nazionali, così ho lasciato la presidenza della Ciaba. L’importanza delle nostre riunioni non sta solo nel fatto che siamo tutti uomini di legge, e nemmeno se ci aggiungiamo le opportunità di networking abbiamo spiegato tutto: è il sentimento di fraternità tra i partecipanti che è davvero unico. Tra i nostri direttori nel Connecticut c’è un avvocato, Louis Pepe, molto apprezzato nel nostro Stato, tra i nostri membri più riconosciuti. Lui è un ex presidente del Connecticut Bar Association ed è membro di 9 diverse associazioni di avvocati. E ci dice sempre: “Non importa di quante associazioni io faccia parte, la cosa più divertente per me è essere parte della Ciaba”. Non è solo un’associazione professionale in cui si organizzano seminari, si fanno nuovi incontri, si migliorano le proprie abilità e conoscenze, si conduce l’attività che ci permette di crescere e avere sempre più successo nel mondo legale: la realtà è che altrettanto importante e forse anche di più è il fatto di riunirci in un ambiente rilassato e sicuro, non competitivo con gli altri membri. Durante i nostri incontri c’è una cosa che è diventata una tradizione. Naturalmente, la prima volta che accadde non sapevamo che sarebbe diventata una tradizione: uno dei nostri membri, Mark Iannone, mise un sacchetto di carta marrone sul tavolo e disse: “Mi piacerebbe discutere di una cosa con il consiglio”. Io non avevo idea di dove volesse arrivare, così gli dissi “Certo, Mark”. Aprì la borsa e tirò fuori un bellissimo spicchio d’aglio, un particolare tipo di aglio che coltiva lui stesso, e lo distribuì a tutti noi… e adesso ogni volta non vediamo l’ora che lo faccia di nuovo, anno dopo anno: “Quand’è che Mark porta l’aglio?”. E non voglio cadere in alcuno stereotipo, certo... ma nelle nostre riunioni non si parla solo di legge, ma anche di cibo e di vino, di chi ha recentemente viaggiato in Italia, e sviluppiamo tante relazioni meravigliose. Ad esempio, io in Italia ho visitato la famiglia di uno dei nostri membri, Lorenzo Agnoloni, in Toscana, ed è stato fantastico. Inoltre sono andato a Napoli a trovare il mio amico Giancarlo Pezzuti, avvocato napoletano: ha cancellato tutti i sui impegni e ha passato tutto il giorno facendomi visitare Napoli, ed è stato meraviglioso.
C’è un aspetto del sistema giudiziario americano che consiglieresti di inserire anche nel sistema giudiziario italiano?
Confesso che non conosco benissimo il sistema italiano. So che molti americani sono rimasti perplessi sul sistema penale italiano, conoscendolo attraverso gli occhi dei giornalisti americani, in occasione del caso di Amanda Knox. Poi, ho parlato con avvocati italiani che sono spesso in America, come Valerio Spinaci e Giancarlo Pezzuti. Entrambi mi hanno assicurato che è stata data un’impressione sbagliata del sistema giudiziario in Italia, perché la nostra conoscenza passa attraverso i racconti e i servizi dei giornalisti americani. Quello che tengo a sottolineare è che nel sistema di giustizia penale americano l’obiettivo generale è quello di proteggere l’individuo, a scapito delle forze dell’ordine e del sistema. La protezione dei diritti individuali è suprema, ma non sto dicendo che non sia così anche in Italia. Qui in America abbiamo un detto: “È meglio che dieci colpevoli siano in libertà piuttosto che un innocente in carcere ingiustamente condannato”. Credo che questa sia la sintesi del sistema americano. Certo, nel nostro sistema abbiamo molte persone che sono state condannate ingiustamente; ma la natura del sistema è quella di concentrarsi sulla persona e i suoi diritti. Questa enfasi a volte sconvolge e fa arrabbiare molti; tuttavia, come avvocati, dobbiamo comportarci come si comportò il giudice John Sirica e seguire sempre la legge.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:36