Istantanee di vita dall’Italia agli Usa

Sempre in giro per i 50 Stati alla ricerca di tracce di Italia, oggi il nostro viaggio si ferma in Connecticut. Tra le cose importanti da ricordare a proposito degli italiani in Connecticut, non possiamo non menzionare Ella T. Grasso: figlia di genitori immigrati italiani, nel 1975 fu la prima donna ad essere eletta governatore di uno degli Stati Uniti in condizioni normali (le tre precedenti donne che ricoprirono la carica di governatore lo fecero subentrando ai loro mariti). Così ci è sembrato perfetto a questo proposito incontrare Anthony Riccio, autore di “Farm, Factories, and Families: Italian American Women of Connecticut”. Questo non è il suo unico libro: i suoi precedenti volumi sono “Portrait of an Italian American Neighborhood” (1998), “Boston’s North End: Images and Recollections of an Italian American Neighborhood” (2006), “The Italian American Experience in New Haven” (2006), “Cooking with Chef Silvio: Stories and Authentic Recipies of Campania” (2009). Anthony sarà in tour per presentare il libro in Connecticut, e non solo: se qualcuno dei nostri lettori è interessato a incontrarlo, sul suo sito www.anthonyriccio.com si trovano date e luoghi.

Anthony, tu sei l’autore di “Farm, Factories, and Families: Italian American Women of Connecticut”. Dicci qualcosa di più su questo libro.

Ho scritto diversi libri prima di questo sugli italoamericani e ho capito che c’era un’altra storia da raccontare, che non era mai stata trattata prima: la storia delle donne in questa comunità. Le donne italoamericane non hanno mai avuto una voce, sono rimaste a lungo sullo sfondo sia in famiglia che sul posto di lavoro, ma sono state quelle che hanno contribuito a tenere insieme la cultura italoamericana. Hanno gestito l’economia familiare, hanno trasferito ai loro figli l’educazione e il comportamento che avevano ereditato dai loro genitori italiani, hanno caricato la famiglia sulle loro spalle. Durante la grande Depressione, quando gli uomini erano fuori al lavoro, le donne italoamericane aprirono i loro negozi, diventando imprenditrici per aiutare l’economia familiare. Furono numerose, le italoamericane che per prime organizzarono il loro impegno per i diritti sul luogo di lavoro: fondamentalmente un movimento femminile, come ho imparato durante le ricerche per questo libro. Erano donne molto creative, eroine provenienti da una società patriarcale, con gli uomini che erano soliti decidere per tutti e fondamentalmente dettare legge ciò che sarebbe dovuto accadere alla famiglia. Quando giunsero in America, il sogno americano per loro fu la possibilità di parlare, di dire la loro; e il libro è importante perché continua a dare alle donne la possibilità di esprimersi e di raccontarsi. Queste sono tutte storie e interviste su donne che arrivarono in Connecticut, che a volte ho tradotto dall’italiano, la lingua nella quale ancora si esprimevano. Ma ho avuto più o meno lo stesso schema di risposte quando mi occupai di coloro che giunsero nel New England, con donne provenienti soprattutto dal sud, la maggior parte delle quali senza aver avuto la possibilità di un’istruzione. Il libro è molto emozionante, in questo senso, perché la storia è di solito scritta dagli uomini. Probabilmente questo è quello che è successo anche in altri Paesi che hanno accolto l’emigrazione italiana, come l’Argentina, il Venezuela, il Brasile e l’Australia.

Molte persone che vivono in Connecticut hanno provenienza italiana: alcuni dicono che sia il 19,3% della popolazione del Connecticut, che sarebbe la percentuale più alta subito dopo quella del Rhode Island. Come descriveresti la storia e il presente della comunità italoamericana nel “Constitution State”?

Beh, molti italoamericani vivono ancora in Connecticut, ma la cultura sta svanendo perché nessuno la sta salvando, documentando o conservando in alcun modo. Penso che l’unico modo per preservare la cultura italiana nei luoghi americani, almeno quello che abbiamo ereditato dalla nostra storia, sia quello di scrivere: ma si è scritto molto poco su questo argomento, perché noi italiani non siamo scrittori, discendiamo da una cultura di tradizioni orali. Ho fatto molte ricerche e molti paragoni in questo libro: così il mio studio è stato fondamentalmente quello di catturare le nostre tradizioni orali, perché la maggior parte delle donne e anche degli uomini che sono venuti qui alla fine del secolo scorso, in tutto il Connecticut, non hanno scritto su di loro o circa la loro esperienza. Le loro tradizioni vivevano perché oralmente si passavano di padre in figlio, di madre in figlia, raccontando proverbi, racconti, tradizioni e storie. Ma se non si preserva tramite il racconto scritto, parte della nostra storia e cultura di italoamericani in Connecticut andrà persa; e quindi questo è quello che ho fatto: ho cercato di registrare e documentare le loro parole e anche le loro espressioni, partendo dalle persone più semplici.

Il libro ha anche diverse fotografie, giusto?

Sì, alcune di queste fotografie provengono dagli album di famiglia di alcune delle donne intervistate. Noi le chiamiamo “fotografie di pezzi di vita”: immagini della propria vita quotidiana, magari sul posto di lavoro, la prima comunione, le foto del matrimonio, qualche volta del diploma. Le altre fotografie provengono dai ritratti che ho scattato io alle persone che ho incontrato.

Quali sono i luoghi storicamente più importanti per gli italiani in Connecticut?

Credo che quasi tutte le città del Connecticut abbiano avuto la loro zona italiana. Norwalk e Middletown, New Haven e Hartford, c’è sempre stato un quartiere italiano e al centro di esso c’era probabilmente una chiesa o uno spazio verde, una strada o un viale dove tutti vivevano. A titolo di esempio, a New Haven il luogo più importante per gli italiani era il parco intitolato a Cristoforo Colombo ed è esattamente nel cuore del quartiere italiano.

Questi quartieri italiani erano chiamati “Little Italy”?

No, tutti avevano il loro specifico nome. Forse altre persone di culture diverse a volte si riferivano ad alcuni di loro chiamandoli Little Italy, ma tra gli italiani ognuno di questi luoghi aveva un nome diverso. Per esempio, a Naugatuck gli italiani erano in un luogo chiamato “The Hill”, perché era proprio in cima a una collina che domina la città; ad Hartford la zona italiana era il “North End”.

C’è un aneddoto o una storia narrata nel libro che vorresti citare come interessante o particolare a proposito delle donne italiane negli Stati Uniti?

Le storie interessanti sono tante, ma credo che quella più toccante di tutte sia quella con la quale il libro si chiude, l’epilogo: è la storia di una donna proveniente dalla Sicilia, da una piccola città chiamata Melilli. Nel Connecticut c’era una città chiamata Middle Town: l’immigrazione da Melilli a Middle Town fu enorme, una sorta di migrazione a catena. Probabilmente a Middle Town c’è più gente in qualche modo discendente da Melilli di quanta ne sia rimasta in Sicilia. Questa donna aveva 102 anni quando l’ho intervistata e lei mi ha raccontato storie della Sicilia dei primi anni Venti, su come era la vita in quei giorni. È stato affascinante perché fondamentalmente ricostruiva e un po’ riviveva la vita di quella Sicilia mentre parlava con me. Poi mi ha raccontato il suo viaggio in America. Alla fine, quando ho finito di scrivere il libro, non avevo un epilogo. Così, quando terminò la mia intervista con lei, ci dicemmo che ci saremmo dovuti incontrare di nuovo: mi promise che mi avrebbe detto tutti i proverbi siciliani che lei ricordava da quando era una bambina che viveva in quella zona rurale della Sicilia. Improvvisamente lei si ammalò e non ci potemmo incontrare. Ricevetti una telefonata da sua figlia: “Mia madre sta perdendo coscienza, purtroppo temiamo che se ne stia andando; ma lei continua a dirmi di chiamare Anthony perché devo dirgli i proverbi”. L’ultimo giorno che era cosciente iniziò a dettare i proverbi a sua figlia, la quale mi disse che quella fu in realtà la loro ultima conversazione: disse a sua figlia che Anthony le aveva detto che la storia della sua vita non sarebbe mai andata perduta. E poi perse conoscenza e morì. Questo è nel libro. Questa storia è molto importante, perché è una metafora per una generazione: la sua vita per me rappresenta l’intera generazione di quelle donne: se non si documentano le loro storie, si perderanno. Il suo nome era Lucia Falbo Fulim: aveva sposato un poliziotto veneto, si incontrarono in Sicilia e poi decisero di venire insieme negli Stati Uniti.

Nella splendida Ravello, in provincia di Napoli, c’è una bella mostra fotografica chiamata “From Italy to America. Photographs by Anthony Riccio”, con alcune delle foto che hai scattato a uomini e donne italiane in rappresentanza di coloro che hanno lasciato i loro piccoli villaggi del sud Italia per finire nelle Little Italy degli Stati Uniti. Ce ne parli?

Ufficialmente la mostra doveva terminare il 6 aprile: ma sono felice di poter dire che resterà a Ravello. Il sindaco ha appena deciso di sistemarla nel loro archivio, in modo permanente. Si tratta del percorso visivo di alcune persone che dalle province meridionali dell’Italia sono andate fino in America: una documentazione visiva della condizione del sud che ho fotografato quando ero giovane, molti anni fa. Ero uno studente laureato in Storia dell’arte a Firenze e in quegli anni andai al sud molte volte per scattare foto: stiamo parlando della metà degli anni ‘70 e quella divenne la base del mio lavoro. La mostra è divisa in tre parti: Italia, Boston e New Haven. Le immagini delle persone che sono venute in America, cosa hanno fatto quando sono arrivati, ed è per questo che si chiama “From Italy to America”. Si tratta di un percorso visivo.

Ma quindi nella mostra ci sono anche foto di persone che in realtà non hanno viaggiato dall’Italia all’America, ma sono rimaste qui in Italia?

Sì, in alcune foto ci sono persone che ho incontrato lì, nel sud Italia.

Visivamente, che differenze hai potuto notare tra coloro che sono rimasti qui e quelli che sono andati negli Stati Uniti?

A dire la verità, coloro che sono venuti in America e hanno vissuto con lo stesso stile di vita che avevano in Italia sono cambiati molto poco. È interessante, ho incontrato diverse persone che hanno visto la mostra e le foto che ho scattato negli anni passati al sud, e mi hanno detto che le persone nel sud dell’Italia di oggi non sembrano più così. Rispetto agli uomini e alle donne che ho documentato a quell’epoca, nel sud Italia o a Boston e a New Haven tra coloro che emigrarono, oggi non hanno più quell’aspetto arrabbiato, non hanno più la stessa espressione. La “fisionomia del contadino” semplicemente non esiste più.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:33