Un grande Lavia al Teatro Argentina

Al Teatro Argentina di Roma va in scena, fino al 22 dicembre 2013, lo spettacolo “I Pilastri della Società”, di Henrik Ibsen, per la regia e l’interpretazione (davvero magistrale!) di Gabriele Lavia, nel ruolo del protagonista, il console Bernick. Tutta la rappresentazione si snoda, senza soluzioni di continuità, lungo i meridiani e paralleli di una particolare superficie d’inviluppo, creata dalla circolazione incessante e osmotica di una compagnia attoriale di prim’ordine. La scena appare sontuosa, impreziosita da scelte d’arredo e scenografie dinamiche di gruppo, che operano cambi scena “senza cambiamenti”, grazie a una consumata tecnica di movimenti lenti, differiti ma sincronizzati, lungo le linee d’inviluppo, costruendo così un “continuum” privo di singolarità e di pause senza movimento.

Una tecnica raffinata, dunque, che consente a Lavia di avvolgere lo spettatore e trasportarlo lungo le spire gentili (ma solo in apparenza!) delle complesse superfici emotive, tracciate dalla concezione teatrale ibseniana, che vuole rappresentare la lotta implacabile di forze antagonistiche nel destino umano, nel senso proposto da Hermann Hettner, per il quale “la storia portata sulla scena è soltanto pretesto all’esposizione di conflitti psicologici, indipendenti dal tempo e dal luogo”. Sullo sfondo della scena giganteggia un’immersa (finta) vetrata, con archi a tutto sesto, simbolo della perfezione classicheggiante, che vuole sintetizzare gli eventi che avvengono “al di là” dello spazio privato, rappresentato quest’ultimo dall’immenso salone di casa Bernick, con divani e poltrone rosso-cardinale, collocate in posizione strategica, come il piccolo pianoforte, rispetto ai bordi-passerella del palcoscenico.

Lavia, infatti, sceglie di fare del lato perimetrale esterno, giacente sul piano frontale della rappresentazione, la via di scorrimento, attraverso la quale irrompono sulla scena, o ne defluiscono - con una corsa forsennata - tutti i protagonisti del cambiamento e dell’arricchimento del dialogo, per la moltiplicazione, anche sensazionale, dei personaggi fino allora presenti. Al di là della vetrata, è volutamente posizionato il “locus” delle convenzioni, dove agisce e si nutre la “Maggioranza Silenziosa”, costituita da un conglomerato (solidissimo, per la verità, tanto da spingere verso l’abisso dell’auto-annientamento i diversi da sé, protagonisti positivi di Ibsen) di vigliacchi, di ossessi, di spiriti deboli e limitati. “Al di qua”, nelle volute e negli occhi di Johan, Olaf e Lona, traspira pesantemente l’alito dell’odio di Ibsen per lo “spirito debole”, in difesa di un individualismo forsennato.

Ne “I Pilastri della Società”, la passione vitale di Johan si traduce in atti quando, afferrato il sogno dell’amore e della fuga con Dina, consegna alla sorella Lona e, attraverso di lei, al console Bernick, le chiavi della condanna sociale (due lettere compromettenti, scritte a Johan dallo stesso Console) e del possibile ricatto, che ne avrebbero distrutto “Il Pupo” pubblico, di pirandelliana memoria, di fronte alla sua adorata Maggioranza silenziosa. Il gesto liberatorio di Lona, mentre fa a pezzi quelle catene di carta, al cospetto del suo autore, libera per sempre Bernick dallo spettro della sua verità insostenibile.

Eppure, sarà proprio questa verità, abilmente giocata nell’ultima inquadratura e affidata, ormai, alla sola mercé dello specchio deformante di consumato oratore, a fare del sermone del console l’arma del suo trionfo, presso la Maggioranza silenziosa. Un discorso di auto-incoronazione, degno dell’oratoria funebre di Ottaviano Augusto, che farà passare un’operazione di speculazione fondiaria e immobiliare (architettata dai possidenti locali, guidati dallo stesso console, ai danni di tutta la collettività), come un “beneficio” indotto, cui tutti sono chiamati a partecipare con un azionariato diffuso, affidato nelle mani dell’unico salvatore della patria.

Sempre lui, il console Bernick, che ha svenduto un grande amore (Lona) e una figlia illegittima (Dina) per sposare una donna (Betty) e appropriarsi del suo patrimonio, indispensabile per salvare dalla rovina l’impresa di famiglia e mantenere il posto di lavoro per migliaia di lavoratori. Malgrado il suo carattere tragico, il protagonista (impersonato da Lavia con un’impressionante “vis” identificativa, soprattutto nelle scene in cui Bernick ammette tutte le sue colpe, in colloqui riservati con Lona, sorellastra della moglie Betty) realizza pienamente il suo fine individuale: quello di fare grande la sua Comunità di riferimento, aumentandone significativamente il grado di benessere.

Perché il suo Io non può fare a meno della linfa vitale, che promana da quel riconoscimento collettivo indistinto, anche se il suo Pupo pubblico è esattamente all’opposto del Bernick privato, intriso dagli antivalori di cinismo, povertà spirituale e vigliaccheria che lo contraddistinguono. Perché, infatti, “l’ibsenismo” non è altro che la contestazione della morale tradizionale (il “timore-di-ciò-che-dirà-la-gente”, secondo B. Shaw, per cui si impone il rispetto delle convenienze e dell’ordine stabilito), che porta costantemente l’autore all’ideazione di eroi inflessibili ed innegabilmente eccessivi, come Johan, Lona e Olaf. La scelta interpretativa di Lavia, tende a esaltare la visione di Ibsen della “menzogna vitale”, sulla quale si baserebbe ogni amore coniugale, dove la vocazione alla fedeltà è sconvolta senza tregua dalla dimensione selvaggia del destino.

Nel “Gruppo di famiglia con Signora”, i cui destini, passioni e contraddizioni rappresentano le linee della superficie d’inviluppo della narrazione, Lavia ci consegna la volontà di Ibsen, nel fustigare i suoi compatrioti, attraverso un disegno litografico delle tare congenite della società borghese, per censurarne la “doppia morale” (una per l’uomo; un’altra, diversa, per la donna). I colpi di frusta più violenti vanno a colpire il culto della rispettabilità, giocato in contrapposizione alle esigenze dell’amore vero che, invece, esalta ed elogia i diritti dell’individuo, contro sia la “maggioranza silenziosa”, sia l’inquinamento, fisico e morale, della corruzione di sistema.

Perché, in definitiva, per Ibsen, “il grande peccato senza remissione, è di uccidere la vita amorosa in un essere umano”, che riflette l’assunto di Kierkegaard, per cui “il mondo intero è alla ricerca di una fede, di una vocazione”. Poiché gli occhi ingannano, vale la pena provare a chiuderli e ascoltare il fluire delle parole, semplicemente, come si fa con la musica. Le emozioni (le cose vere, quelle false, quelle altre indecise..) appaiono e scompaiono -per un attimo - solo e soltanto nelle sfumature tonali: è lì che si annida e si cela l’essenza dei caratteri delle persone umane. Grande teatro, insomma, e un’occasione da non perdere per riflettere sulla vacuità e sulla grandezza delle umane cose.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:29