Un dedalo di chiostri a Napoli (II parte)

I numerosi chiostri di Napoli rappresentano un patrimonio artistico e storico poco conosciuto. Fortunatamente quest’anno il “Maggio dei monumenti”, con numerose visite a questi angoli dimenticati, ha permesso alla città di ritornare capitale della cultura, come capita ogni qual volta che apre i suoi spazi ad una conoscenza che parla una lingua internazionale. Vi è stata la possibilità di varcare la soglia del Monastero di Santa Maria in Gerusalemme, detto delle “Trentatrè” con un percorso dal titolo esplicativo: “Sui passi della fondatrice Maria Lorenza Longo”, per un percorso affascinante tra storia, arte e fede della Napoli del Cinquecento, partito dall’atrio dell’Ospedale degli Incurabili.

Nei chiostri sono stati previsti anche una serie di eventi: danza nel cortile del Museo archeologico, visite teatralizzate all’Annunziata, musica operistica nel convento dei Passionisti, animazione a Castel Nuovo, storie di fantasmi a Castelcapuano, numerosi concerti di canzoni napoletane e un percorso tra chiostri e cortili dedicato a Giovanni Boccaccio, nell’occasione del settimo centenario della nascita, con lettura di novelle del Decamerone. Tutti questi eventi, alcuni gratuiti, altri a pagamento, hanno riscosso notevole successo di pubblico decretando anche per quest’anno la formula vincente del Maggio dei monumenti, “inventato” alcuni anni fa dalla felice intuizione di Mirella Barracco, presidente dell’associazione “Napoli ‘99”.

I chiostri napoletani sono testimonianza della centralità della vita religiosa dal Duecento all’età moderna, in particolare a partire dal Cinquecento, quando la città sacra raggiunse la sua massima espansione con 70 monasteri maschili e 22 femminili. Oggi, passare dal caos delle strade del centro all’interno di un chiostro rappresenta un sollievo per l’anima e permette, in perfetto raccoglimento, di visitare veri e propri musei all’aperto, ammirando le opere dei maggiori artisti attivi a Napoli. La pietà e il calcolo politico dei sovrani, dagli Angioini ai Borbone, favorì il sorgere di vere e proprie città monastiche e favorì il diffondersi degli ordini religiosi, offrendo ricchezza e potere in cambio di una santa alleanza.

I d’Angiò costruirono i conventi di San Lorenzo Maggiore e di Santa Chiara, affidandoli ai Francescani, San Domenico Maggiore e San Pietro Martire ai Domenicani, San Martino ai Certosini, il Carmine ai Carmelitani, Sant’Agostino alla Zecca e San Giovanni a Carbonara agli Agostiniani, i Santi Severino e Sossio ai Benedettini, solo per ricordarne alcuni tra i maggiori. Un duro colpo fu inferto agli ordini monastici durante il decennio francese con la destinazione di gran parte degli edifici religiosi a funzioni di pubblica utilità: molti chiostri divennero caserme, ospedali, scuole, collegi ed alcuni perfino civili abitazioni. Ripercorrere la loro storia significa ripercorrere la storia della città, respirando un’atmosfera di pace fuori dallo spazio e dal tempo.

Partiamo dalla descrizione di uno dei più famosi e belli tra i chiostri della città, quello di Santa Chiara realizzato da Antonio Domenico Vaccaro su invito della badessa Ippolita di Carmignano. Il complesso monastico fu fondato nei primi anni del XIV secolo da Roberto d’Angiò e dalla pia consorte Sancia di Maiorca. Con il restauro settecentesco cambiò completamente la fisionomia degli ambienti. I due ordini religiosi, maschile e femminile, occupavano spazi indipendenti e il chiostro grande era utilizzato dalle Clarisse, più numerose, provenienti da famiglie nobili e ricche.

Che spendessero tanto per i peccati di gola si arguisce dalla lettura dei rendiconti di spesa: frutta di ogni genere, vino, liquori, dolci non mancavano mai sulla loro tavola. Vaccaro progettò un grande chiostro maiolicato con quattro viali a croce e sessantaquattro pilastri decorati con colori vivaci, tali, pur nella netta cesura con l’esterno, da creare un luogo in grado di stimolare emozioni e riflessioni per religiose abituate al lusso ed alla ricchezza. Sui pilastri sono raffigurate scene di vita campestre e cittadina, oltre ad alcune allegorie culminanti nei trionfi dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco.

Originale l’immagine di una suora che getta cibo ad otto gatti, antenati di quelli che popolano oggi il vasto giardino. In epoca borbonica furono apposti ulteriori pannelli maiolicati ad opera del fratelli Donato e Giuseppe Massa, discepoli del Grue, abile ceramista trasferitosi a Napoli da Castelli. Danneggiato dal terribile bombardamento del 4 agosto 1943, che distrusse completamente la chiesa, fu restaurato e oggi è utilizzato dai Frati Minori. Altro tra i chiostri più famosi è quello di San Gregorio Armeno, che certamente esisteva già prima dell’XI secolo: infatti, nel 1025 esistevano tre chiesette, che vennero fuse in un grande edificio dedicato a San Gregorio Armeno, le cui reliquie furono trasportate a Napoli dalle monache basiliane sfuggite alla persecuzione iconoclasta.

A metà del Cinquecento al convento furono apportate radicali modifiche per rispettare le regole imposte dal Concilio di Trento. Nel chiostro dominano due statue eseguite da Matteo Bottiglieri, raffiguranti Cristo e la Samaritana, che sembrano passeggiare tranquillamente nel giardino, con alle spalle una splendida fontana dalle vistose decorazioni. Altra interessante caratteristica della struttura è la presenza di ben diciassette cucine, dal che possiamo immaginare quanto le monache tenessero alla buona tavola, apparecchiata con grande cura.

Per chi volesse approfondire usi e abitudini delle religiose, è interessante leggere il diario di Enrichetta Caracciolo, ospite sette anni del convento, che guardava la vita conventuale con l’occhio di donna libera, monacata a forza dalla famiglia e, soprattutto, laica. La sua opera “I misteri del chiostro napoletano” suscitarono sdegno tra ecclesiastici e aristocratici ma è stata sempre apprezzata dagli studiosi. A partire dal 1884 San Gregorio ospitò suore provenienti da altri monasteri soppressi, come quello di Donnaromita, Santa Patrizia e Sant’Arcangelo a Bajano. Il chiostro di San Lorenzo Maggiore, sorto nel Trecento con un impianto gotico, più volte trasformato, rappresenta un esempio delle stratificazioni stilistiche succedutesi nei secoli.

È una delle mete più gettonate dai turisti che vi affluiscono numerosi per visitare i sottostanti resti della città greco-romana portati recentemente alla luce al di sotto del pozzo di marmo realizzato dal Fanzago, sormontato dalla statua di San Lorenzo. In quest’area sorgeva il Macellum, l’antico mercato, e a pochi passi vi era l’Agorà. Sul lato orientale del chiostro vi è il portale d’ingresso della sala capitolare, dove era presente l’affresco raffigurante San Francesco che consegna la Regola ai Frati Minori e alle Clarisse, oggi conservato nell’annesso museo. Ancora da ricordare che, nella chiesa di San Lorenzo, il sabato santo del 1336 Boccaccio incontrò la sua Fiammetta, ovvero Maria d’Aquino, figlia naturale di Roberto d’Angiò, e che nel convento, nel 1344, soggiornò Francesco Petrarca.

I chiostri di Monteoliveto, appartenenti agli Olivetani, sono quasi tutti inglobati nella Caserma Pastrengo, sede del Comando provinciale dell’Arma dei carabinieri. Furono costruiti durante il regno di Ladislao. Ampliati sotto il regno di Alfonso II d’Aragona, divennero sette spazi aperti con ampi giardini. Molti nobili trascorrevano periodi di riposo e meditazione in quell’oasi di pace per dimenticare gli affari terreni. È in questi ambienti che Torquato Tasso scrisse parte della “Gerusalemme Liberata”. Solo da alcuni anni il chiostro grande e quello di servizio sono stati restaurati e resi visitabili, anche se versano in condizioni pietose, come quello adiacente al Palazzo delle Poste: dove una volta bande di scugnizzi si dedicavano ad animate partite di pallone e le mura puzzavano di urina a decine di metri di distanza, attualmente, chiuso e “privatizzato”, c’è il parcheggio a servizio della vicina caserma.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:27