Il viaggio misterioso di Alberto Bevilacqua

Ho conosciuto Alberto Bevilacqua più di quarant’anni fa. La Rai, ai cui programmi collaboravo con sceneggiati radiofonici e servizi giornalistici, mi chiese di intervistarlo sul suo ultimo libro appena uscito, Il viaggio misterioso. Gli telefonai e c’incontrammo a casa sua. Di quella intervista conservo ancora la cassetta, che dopo la ferale notizia sono andato a ripescare, fra le centinaia che giacciono accatastate negli scaffali della mia biblioteca, per riascoltare la sua voce di allora e ricostruire il nostro colloquio. Dopo quell’intervista ho avuto occasione di incontrarlo altre volte e un giorno gli portai un mio romanzo che intendevo pubblicare. “Il suo libro”, mi disse, dopo che in mia presenza l’ebbe sfogliato e ne ebbe lette alcune pagine, “è scolpito nel bel marmo di Carrara”. E come io gli confessai che m’era costato molta fatica, rispose: “Scrivere dev’essere un piacere, non una sofferenza. Anche quando si tratta di un libro autobiografico bisogna mettersi davanti alla pagina con distacco”. E mi fece l’esempio di Verga e dei veristi, che vedevano il romanzo come “uno studio sincero e spassionato” della realtà, tale da dare l’impressione di essersi “fatto da sé”.

Bevilacqua, infatti, nello scrivere è sempre riuscito a sottrarsi ad ogni tipo di sentimentalismo, rifuggendo da qualunque definizione dogmatica della realtà, anche sul piano politico, convinto che la verità risiede non nel particolare, ma nell’insieme. Da qui quel senso della misura che si coglie nelle sue descrizioni, anche di episodi brutali e violenti, e che non è frutto di una tecnica narrativa “consumata”, dal momento che appare in tutti i suoi libri, ma il risultato di questa visione “cosmica” che egli ha della vita. Come si ricava, appunto, da certe scene del Viaggio misterioso, le quali, pur nell’assoluta sinteticità dell’espressione, vibrano di una forte drammaticità densa di significati e di sottintesi profondi. Per Bevilacqua l’ideologia non è (come accade in molti scrittori contemporanei) uno strumento di lavoro, la ragione prima del libro: essa nasce dai personaggi, dalle loro azioni e dalle loro parole. Il fascismo, la lotta clandestina, il confino, sono presentati senza retorica o compiacimenti interiori, e senza indulgenza verso alcun elemento decorativo, quale potrebbe essere la descrizione di una divisa, di un orbace.

Questi elementi, pur fondamen¬tali e determinanti, diventano accessori, nel senso che tutto si fonde in una interpretazione simbolica della realtà, una realtà fatta, necessariamente, di contrasti, di lotte che si ripetono sempre, in circostanze e in condizioni diverse. Uno degli aspetti più interessanti dell’animo di Alberto Bevilacqua è il senso religioso della vita, quasi un sacro rispetto della realtà in tutti i suoi modi e in tutte le sue forme, che però non si traduce in una passiva accettazione dei fatti umani, perché non è l’autore che parla, sono i suoi personaggi, nei quali egli si immedesima al punto che avverte dentro di sé la loro presenza fisica, ne interpreta finanche il senso visivo; in poche parole egli penetra in quel meccanismo così complesso e grandioso che fa muovere gli uomini, la vita, lo vede dal di dentro, e così come lo vede lo descrive. Da ciò quel misto di realismo e di lirismo insieme che costituisce uno dei pregi fondamentali dell’arte di Bevilacqua.

Testimone delle vicende da lui narrate, nel momento stesso in cui vive la storia dei suoi personaggi e dei suoi tempi egli la supera, come per un dilatarsi della coscienza, capace di percepire e di abbracciare in una visione d’insieme tutti gli aspetti e tutti i momenti della vita. Per questo i suoi personaggi e le sue storie, pur collocandosi in un periodo e in un ambiente particolari, escono dalla cronaca, cosa che non accade ai romanzi di certi narratori contemporanei, i quali poco o nulla concedono sul piano universale, che è quello che più conta. È questa la prova della profonda umanità con cui Bevilacqua ha sempre saputo guardare ai fatti e alle persone, e che ha come risultato quello di una tecnica narrativa che porta ad accordare in giusto equilibrio i vari toni della realtà. Anche Parma, alla quale l’autore si dichiara tanto legato, non soggiace ad alcuna indulgenza sentimentale; sembra fuori del tempo, come se affiorasse tra una nebbia che rende evanescenti le persone e le cose.

Una Parma universale. Come i suoi personaggi: ombre che prendono corpo, per allontanarsi e dissolversi in una dimensione in cui il tempo e lo spazio non hanno peso. Per questo motivo Bevilacqua si accostò al cinema, per meglio esprimere questa interiore forza del suo sentire, questo bisogno, questo richiamo della sua arte che avverte l’insufficienza della parola, che pur rivela una sorprendente immediatezza espressiva. Brevi tocchi, pochi e rapidi cenni, ed ecco lì la scena, con tutte le sue sfumature, con i suoi mille particolari, quanti non sarebbero capaci di evidenziarne le frasi più ricercate e precise. La comunanza dell’umano destino, al cui compimento ogni singolo indi¬viduo concorre col suo bagaglio di esperienze, tragiche o liete, buone o cattive, giuste o ingiuste che siano: questo è il fondo, questo è il tema costante dei romanzi di Bevilacqua, e particolarmente del Viaggio misterioso, il cui titolo suggestivo racchiude la somma delle esperienze e delle meditazioni più profonde dell’Autore, quali già appaiono delineate nel precedente romanzo “L’occhio del gatto”.

In definitiva, il senso che si ricava da tutta l’opera di Bevilacqua è questo: la vita, di per se stessa, non è né bella né brutta, è vita e basta, senza aggettivi, per chi riesca a coglierla in una visione obiettiva e totale. Addio, Alberto, ora anche tu sei andato ad accrescere la lunga schiera dei miei grandi fratelli morti, ma già in vita ti amavo come un fratello spirituale. Anche se non ho avuto con te una lunga e costante frequentazione e sono ormai passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo incontrati. Ma la tua foto non manca fra quelle di grandi scrittori che custodisco, come delle sacre reliquie, lungo gli scaffali della mia biblioteca, da Dante a Oriana Fallaci, tanto che spesso, nel silenzio che avvolge la stanza, mi pare quasi di sentirne il respiro. E non sono loro, come diceva Papini, “i compagni delle insonnie, i confortatori delle tregue, le ombre incuoranti dei giorni migliori”? Buon viaggio, Alberto, anche questo tuo ultimo è avvolto nel mistero. Fra poco toccherà pure a me. Spero che c’incontreremo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28