Quando la politica si faceva al Caffè

Alexander Pope nel "Ricciolo rapito" ha scritto che «il caffè rende saggi gli uomini politici, facendogli veder chiaro ciò che l’oscurità nasconde». Ebbene, la mitica bevanda (una leggenda ne attribuisce l’invenzione ad Allah) ha il potere di conciliare gli animi, annullando le differenze e le distanze. I nostri politici quando s’incontrano nella bouvette di Montecitorio, inebriati dal profumo del caffè, dimenticano le loro divergenze e le loro beghe meschine e si sentono tutti sullo stesso piano, senza presunzioni di superiorità o di impresentabilità. Se nei dibattiti televisivi si offrisse agli interlocutori una tazzina di caffè si eviterebbero insulti ed aggressioni. Il caffè, insomma, è una sorta di “pomo della concordia” che infonde equilibrio e saggezza, aumenta la precisione e la lucidità e, come diceva Michelet, «dalla realtà osservata obiettivamente fa scoccare la scintilla della verità». In passato il Caffè riuniva allo stesso tavolino liberali, cattolici, socialisti e nazionalisti, tutti pensosi del bene della patria e di un comune destino. Ma non vi mancavano i letterati e gli artisti di ogni ideologia, e a buon ragione Kesten definiva i Caffè «l’anticamera della poesia».

Così si spiega come sia nata la consuetudine d’incontrarsi al Caffè, quale luogo di decantazione dei pensieri e dei sentimenti avversi o cattivi, e di recupero del senso dell’uguaglianza e della comunità. «Non si potrebbe scrivere una pagina di storia, né politica né letteraria né artistica dell'Ottocento, senza citare il nome di un Caffè». Così scriveva Bargellini, aggiungendo: «Nello spazio di un secolo i Caffè presero il posto e l'importanza dei club politici e dei ridotti accademici. Succeduto alla soporifera cioccolata, bene accetta ai palati aristocratici e alle sieste dei salotti settecenteschi, il caffè diventò l'eccitante preferito dagli agitatori liberali, tanto che si potrebbe pensare, se i movimenti politici avessero gusti spiccati, che la reazione sorseggiasse cioccolata, mentre la rivoluzione beveva caffè». In Italia nel periodo del Risorgimento i Caffè storici e letterari italiani svolsero un ruolo così importante che a Milano gl'intellettuali nei loro programmi, oltre alla illuminazione nelle strade, ai bagni pubblici e ai giornali, inserivano la costruzione di nuovi Caffè, affinché i cittadini potessero mantenere più stretti e continui contatti fra loro. La Torino dell'Ottocento, in particolare fra il '49 e il '59, fu la patria dei Caffè politici, per la peculiare incidenza che vi ebbe la storia del nostro Risorgimento, con i suoi fatti gloriosi, con le sue speranze, con i suoi aneliti di libertà, ma anche coi suoi momenti tristi, di sconforto e di delusione. La cronaca dell'epoca è piena di avvenimenti che testimoniano la partecipazione di tutto il popolo piemontese alla vita politica italiana. Uno dei Caffè più importanti era il Fiorio, al n. 8 di via Po. Soprannominato "Caffè dei codini e dei Machiavelli", perché frequentato di preferenza da diplomatici e aristocratici, e costituito da una lunga sala detta ‘il vagone’, ospitò famosi personaggi politici e letterati, quali Cavour, Cesare Balbo e Massimo d'Azeglio, tre uomini legati fra loro da saldi vincoli di amicizia e di patriottismo. Luogo di convegno di nazionalisti e di proscritti provenienti da ogni parte d'Italia, il Caffè Fiorio era tanto importante, e così credibile ciò che vi si diceva, che Cavour chiedeva sempre ai suoi informatori: “Che cosa si dice al Fiorio?”.

Un altro Caffè storico era il Nazionale, dove Massimo d'Azeglio lesse in anteprima, ancora fresco di stampa, il proclama di Carlo Alberto che concedeva finalmente la Costituzione. Da quel momento Torino, con i suoi Caffè, divenne il centro della storia nazionale, il luogo in cui conversero le speranze di tutta l'Italia. «Oh anno de' portenti, / oh primavera della patria, oh giorni, / ultimi giorni del fiorente maggio, / oh trionfante / suon de la prima italica vittoria...». La storia di Torino, del Piemonte e dell'Italia intera è lì, in quella celebre ode del Carducci. Genova non ha avuto grandi e famosi Caffè storici e letterari, perché vi è mancata quell'atmosfera che fu invece viva altrove, e ciò per il carattere proprio degli abitanti, un popolo fiero e laborioso, ma spesso chiuso, individualista e misantropo, di cui noto è il detto: “Ciascuno per sé e Dio per tutti”. Non si può tuttavia non ricordare almeno il Caffè dell'Unione, in piazza Nuova, dove il 16 dicembre del 1847 risuonarono le note del famoso inno di Goffredo Mameli, il quale soggiornò a Genova diverse volte e lì, dopo la prima guerra d'indipendenza, il 9 agosto 1848, protestò energicamente contro l'armistizio di Salasco, invitando i giovani ad arruolarsi nelle file dei garibaldini. E fu ancora lì che, dietro ispirazione di Mazzini, compose l'Inno militare, che sarà musicato da Verdi. Entrerà poi in Roma con Garibaldi e, ferito a una gamba sul Gianicolo, il 3 giugno del 1849, morirà di cancrena dopo un mese, nonostante l'amputazione dell'arto. E nei Caffè genovesi sostò Mazzini, che nel 1821, alla vista dei rivoluzionari sconfitti che chiedevano aiuti per poter esulare in Spagna, capì che «si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria». E a Genova sarà arrestato il 13 novembre del 1830, dietro l'accusa, e per una delazione, di aver organizzato la Carboneria. Un ruolo importantissimo svolsero i Caffè milanesi negli anni fra il '48 e il '60. Le discussioni politiche vi si fecero sempre più animate, e c'erano i mazziniani, che si riunivano al Caffè della Peppina, e i sostenitori di Cavour, che si ritrovavano invece al Caffè della Cecchina.

Erano luoghi di vivaci dibattiti ma anche di incidenti, per via della polizia austriaca, che mal sopportava le riunioni, le assemblee di cittadini, e se chiudeva la bocca ai giornali, come aveva fatto col Conciliatore (con la scusa che “diffondeva i princìpi più sovvertitori di ogni giustamente moderato governo”), cercava di fare lo stesso con i Caffè. Tra i Caffè di Milano non poteva mancare il Caffè del Teatro alla Scala (dove “si fabbricavano a piacere le riputazioni artistiche”), visto che la vita culturale e mondana si svolgeva appunto nei dintorni del Teatro. Altri Caffè importanti erano il Cova (frequentato generalmente dai vecchi) e il Savini (frequentato dai giovani), che verso il 1910 divenne il quartier generale dei futuristi, con in testa Marinetti, che vi combatteva, anche fisicamente, le sue battaglie per inculcare il suo verbo nei presenti che lo sbeffeggiavano. Venezia, se non la prima città italiana ed europea in cui è sorto il primo Caffè (fra il 1674 e il 1683), è certamente quella che nel Settecento ne vantava di più: il Caffè, infatti, era la casa dei veneziani e vi passava tutta la società. Il più antico, non solo di Venezia ma d'Italia, era il Florian, in piazza San Marco, sotto le Procuratie, frequentato prima da Carlo Gozzi, conservatore, che ne fece “la tolda e il fortilizio” nelle sue battaglie contro il Goldoni, poi dal Manzoni e dal Tommaseo, fervente patriota di idee federaliste e repubblicane e poi partecipe all'insurrezione di Venezia nel '48-'49 con Daniele Manin.

Fu nel salotto del primo piano che alcuni congiurati redassero un proclama che chiedeva la liberazione di Daniele Manin e di Tommaseo. E nelle giornate di lotta il Florian divenne persino un'infermeria. Il 17 marzo del '48, alla notizia che i viennesi si erano rivoltati contro il loro imperatore, i veneziani insorsero, liberarono dal carcere Manin e Tommaseo e li posero a capo della risorta Repubblica di San Marco, preparandosi a fronteggiare il ritorno degli Austriaci. Chiusa nella laguna, la città offrì allora al mondo un esempio insuperabile di resistenza indomita. In quell'occasione Arnaldo Fusinato, che lo frequentava, scrisse il Canto degli insorti. Trieste, città italiana dalla fine della grande guerra, fece storia nei Caffè sotto il dominio austriaco, ma la sua cultura mitteleuropea non ha nazionalità. Infatti Trieste, oltre che un centro di italianità, è stata anche un centro di cultura, conformemente all'ideale dei suoi abitanti e come dimostrano i tanti letterati che si recavano in quella città. Basti per tutti l'esempio di Scipio Slataper, grande scrittore e medaglia d'oro, caduto sul Carso combattendo contro gli Austriaci, per il quale, come dice Piovene, l'Italia «era un ideale di cultura, un anelito di civiltà, un amore nel senso alto; quasi un passaggio obbligatorio per giungere a un sentimento vivo dell'Europa intera». I Caffè di Trieste sono dunque pieni di storia, e lo testimoniano molti avvenimenti registrati dalla cronaca. Ai tavoli del Caffè Garibaldi sedevano anche dei tedeschi ch'erano italiani d'adozione, e c'era pure il grande amico di Joyce, che dopo un trentennale misconoscimento da parte della critica e del pubblico, giungeva di colpo alla fama: Italo Svevo, uno dei più grandi romanzieri italiani.

Con lui Trieste si portava sul primo piano della letteratura italiana ed europea. Un altro santuario del nostro Risorgimento era, a Padova, il Caffè Pedrocchi, che è anche una vera e propria opera d'arte. («El cafè de Pedrocchi xe un portento / che supera ogni umana aspetazion; / più se lo varda e fora e soto e drento / più se resta copai d'amirazion»). Il Pedrocchi era un vero e proprio focolaio di patriottismo, in cui si preparava la rivolta: nelle manifestazioni liberali e nei moti che a Padova furono frequenti nel decennio che va dal '40 alla caduta di Venezia uno dei più facinorosi, quando non l'iniziatore, era Arnaldo Fusinato. Una mattina due ufficiali austriaci passano davanti al Caffè Pedrocchi, agitando vistosamente il sigaro acceso. Gli studenti, risentiti da quell'evidente gesto di provocazione, strappano il sigaro di bocca agli ufficiali, gridando: “Abbasso i sigari!”. I militari rispondono con le armi, accorrono gendarmi da ogni parte e il Caffè diventa il campo di una zuffa sanguinosa, combattuta a colpi di daghe, di pugnali, di pistole e persino di mobili. Muoiono due studenti e un ufficiale austriaco. Alcune ore dopo Giovanni Prati, ch'era presente alla scena, scriveva questi memorabili versi: «Dio formidabile delle vendette / perché non stridono le tue saette / sulla vandalica turba de' mostri / che i brandi infiggono ne' petti nostri?». Bologna, la Felsina etrusca, la “fosca turrita” dell'epoca medioevale, una delle più caratteristiche città storiche italiane, per il suo colore dominante, il rosso, che richiama il sangue, cioè la forza, l'impulsività, la passione. Bologna “la dotta”, ma anche “la grassa”: due qualità che sembrano fare a pugni fra loro e che invece sintetizzano insieme l'indole e la cultura degli abitanti. A Bologna i Caffè furono centri vivi di una intellettualità inseparabile dalla tavola, e se non possono vantare né le tradizioni storiche né lo splendore di altri Caffè italiani, hanno legato i loro nomi a quelli dei grandi Maestri della sua celeberrima Università (la prima sorta in Europa); in testa a tutti Giosuè Carducci, che frequentava il Caffè dei Cacciatori, ma, da buon bevitore, anche la Bottiglieria Cillario (divenuta storica per questo motivo).

Il Caffè Nazionale era frequentato perlopiù da studenti delle Università, da operai e sindacalisti, nelle proteste dei grandi scioperi dell'Emilia, a cui seguirono le manifestazioni per la guerra di Libia. Il Caffè le Giubbe Rosse di Firenze, nei primi del Novecento, ospitò quelli della Voce, la rivista fondata da Giuseppe Prezzolini, e Giovanni Amendola, uno dei più strenui avversari del Fascismo e principale animatore della secessione parlamentare dell'Aventino dopo l'assassinio di Matteotti, il quale, come racconta Stuparich, «ogni tanto prorompeva e faceva tacer tutti con la sua calda eloquenza, balzando di colpo sul primo piano». E c'erano Scipio Slataper, Renato Serra e Giovanni Boine, «consunto dalla doppia febbre dell'anima e del corpo». Ma Giubbe Rosse voleva dire soprattutto Futuristi. «Giubbe Rosse è quella cosa / che ci vanno i futuristi, / se discuton non c'è cristi, / non puoi più giocare a dam». E futuristi voleva dire ribellione, guerra, schiaffi e pugni. E fu appunto alle Giubbe Rosse, che nel giugno del 1911 avvenne uno scontro memorabile fra vociani e futuristi, quando Boccioni, spalleggiato da Marinetti e da Carrà, si avvicinò a Soffici e gli diede uno schiaffo. Soffici reagì, menando colpi a destra e a sinistra col suo bastone. Successe un pandemonio: tavolini che si rovesciavano trascinando con sé i vassoi carichi di bicchieri, gente che scappava. Dovette intervenire la polizia e alla fine l'ordine fu ristabilito. A Roma le prime botteghe del caffè sorsero quasi tutte in piazza Colonna, considerata il cuore della città. Quello che segnò un'epoca in questa zona fu il Caffè del Giglio, all'angolo del palazzo Ferraioli, sul Corso, ritrovo dei liberali, sino al 1849, poi dei clericali. Dopo la nascita di quel locale i Caffè romani proliferarono a tal punto che nel 1854 la capitale ne contava 217. Un Caffè eminentemente politico era il Caffè Nuovo, al piano terra di palazzo Ruspoli al Corso, citato da Stendhal. Frequentato da liberali, fu chiuso nel 1849, dopo l'entrata in Roma delle truppe francesi, e riaprì come Café Militaire Francois, per diventare quindi, nel 1870, Caffè Italia.

Il più frequentato, soprattutto dagli stranieri, era il Caffè Greco, anche perché a quell'epoca era l'unico Caffè in cui fosse consentito fumare liberamente, mentre negli altri il fumo era limitato ad un tavolo isolato. L'età d'oro di questo Caffè fu il periodo fra il 1910 e il 1922, quando vi si riunivano, nella famosa Terza Saletta, insieme ad artisti e letterati, anche uomini politici, il che fece dire a Ferdinando Martini che «in politica come in arte bisognava venire a patti con la Terza Saletta», e a Vincenzo Cardarelli che “nella Terza Saletta s'entrava sovversivi e se ne usciva conservatori arrabbiati e nazionalisti, dannunziani e colonialisti”. E Giorgio De Chirico osservava: “Entrare in quella Saletta era un atto più temerario che saltare all'arrembaggio sopra una nave nemica con la scure in pugno e il coltellaccio fra i denti”. Anche a Napoli i Caffè svolsero la loro parte non indifferente nella storia d'Italia, e ce ne furono molti, perché i napoletani, com'è noto, hanno un vero e proprio culto per il caffè. All'inizio dell'Ottocento solo in via Toledo ce n'erano una trentina. Il primo Caffè storico di cui si ha notizia, sorto verso la fine del Settecento, fu il Caffè dell'Infrascata, davanti al quale la sera dell'8 settembre 1861 alcune persone, che ne erano uscite al grido di “Viva la libertà!”, aggredirono un ufficiale regio, col risultato che si presero un sacco di frustate. Il Caffè Trinacria, invece, nel '48 fu colpito da una palla di cannone, che il proprietario lasciò nel muro di una delle sale come ricordo e portafortuna.

Ma il Caffè di Napoli per antonomasia era il Gambrinus. Considerato il “balcone della città” e soprannominato “l'orecchio di Dionisio”, perché, come la famosa grotta di Siracusa (in cui il tiranno Dionisio rinchiudeva i presunti cospiratori per potere ascoltare da una camera sovrastante tutto ciò che dicevano), il Gambrinus era, per così dire, la centrale e l'amplificatore delle voci della città. Nel 1848 fu il centro nevralgico degli episodi d'insurrezione che portarono la via Toledo a riempirsi di barricate. «Una grande marea cancella i ritrovi che furono culla a molta storia, dove si formò il costume civile e letterario, si dibatterono i temi scottanti della libertà. Il nostro tempo odia i Caffè storici, questi strani orologi delle società che li produssero; di cui scandirono i tempi e le fasi; accogliendo gli uomini e le loro idee nell'interminabile fila dei giorni e degli anni; riassumendo di molti o di tutti i destini diversi, indicandone la caducità e la vanità, vaporante in chiacchiere; chiacchiere da Caffè». Così scriveva Giovanni Artieri nel 1957. Da allora molti anni sono passati e il numero dei grandi Caffè storici e letterari si è ridotto ancora di più: molti altri sono scomparsi, molti si sono trasformati, adeguandosi ai tempi, alle nuove usanze e alle necessità di una vita che va facendosi sempre più dinamica e frettolosa. (Ora, finita, ahimè, la poesia, / altri sono i discorsi, altro il linguaggio).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:31