L'Italia, l’eterna ammalata

Qual è il vero male dell’Italia e dove affonda le sue radici? Dante nella celebre apostrofe del VI canto del Purgatorio ha espresso sul nostro paese il giudizio più sintetico e lapidario che mai sia stato formulato: «Ahi, serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!». In tre soli versi un condensato di schiavitù (in riferimento alle fazioni e alle divisioni politiche), di dolore, di scompiglio, di corruzione e di malgoverno. Allora l’odio non risparmiava nemmeno i cittadini di una stessa città, visto che gl’Italiani si combattevano persino all’interno delle medesime mura. Come Firenze, così erano divise tutte le città d’Italia, e come Firenze, l’intero Paese era simile ad una ammalata “che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma”.

Dopo Dante innumerevoli sono stati attraverso i secoli i giudizi negativi sugli italiani, anche da parte degli stranieri. Nel Cinquecento Francesco Guicciardini ravvisava la molla che fa scattare tutte le azioni dell’uomo nel cosiddetto “particulare”, cioè nel tornaconto personale, che generalmente corrisponde al benessere materiale del singolo, ma può anche rivolgersi all'interesse dello Stato: un interesse che interessa poco agli Italiani, i quali, nella maggior parte, pensano solo o prevalentemente a se stessi. A questo proposito Francesco De Sanctis, parlando delle piaghe del nostro Paese, che avevano finito col contagiare anche coloro che avrebbero dovuto curarle, in un saggio dedicato al Guicciardini, dopo aver sottolineato il disinteresse degli Italiani verso la cosa pubblica e affermato che «pensando ciascuno al suo particulare, nella tempesta comune naufragarono tutti», così concludeva: «La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L'uomo del Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni passo.

E quest'uomo fatale c'impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza». Ma la radiografia più completa e sconcertante dei mali italiani l’ha fatta Giuseppe Mazzini, che, deplorando la nostra «antica, profonda, inconscia immoralità», scriveva: «Non parlo della immoralità limitata a pochi, che fa traffico del potere ed opera calcolatamente e deliberatamente il male: parlo della mancanza d'una norma suprema direttrice della condotta, dell'obblìo, fatto abitudine inveterata, della Legge Morale. Parlo del vuoto d'ogni forte credenza; delle tattiche sottentrate all'impavida affermazione del Vero, del culto dell'opportunità, della riverenza menzognera professata per calcolo a cose e uomini che si dispregiano; dell'abbandono di ogni obbligo di promuovere il bene e combattere il male e del conformarsi sistematico agli errori predominanti del paese; dell'abdicazione d'ogni iniziativa perché pericolosa agli iniziatori; della questione degli individui posta in vece di quella delle idee; dell'Io curato più dell'intento; dell'indifferenza degli uni e dell'intolleranza degli altri; della noncuranza dell'avvenire; dell'irriverenza profanatrice colla quale il sacro nome dell'Italia è trascinato: di quanto insomma rivela mancanza di fede collettiva e d'amore caldo, attivo, perenne ai nostri fratelli, all'Italia e a Dio, che ci ha posti quaggiù per meritare servendo agli uni e all'altra».

Venendo ai giorni nostri, nel 1972 Luigi Preti in un libro intitolato appunto L’Italia malata scriveva: «Malgrado l’evoluzione civile e culturale e il miglioramento del tenore di vita, il cittadino italiano ha conservato il suo particolarismo (siamo sempre lì), che lo rende piuttosto sordo di fronte agli interessi della collettività. La parola d’ordine sembra quella di ‘farla franca’, esattamente come 50 anni fa. In Italia hanno scarso successo gli appelli al senso civico degli Italiani. Quando può, ognuno tende a violare le norme e i regolamenti, che dovrebbero valere per tutti, a salvaguardia di un interesse collettivo». Preti ha messo il dito nella vera e più profonda piaga del nostro paese, che è il primo male da cui derivano tutti gli altri, e che rende difficile risolvere i vari problemi, da quello economico a quello sociale e culturale, perché se un popolo, invece di far quadrato, tutti insieme, contro un male comune si disgrega e ognuno pensa solo a se stesso non c’è speranza di salvezza. Dall’Italia malata di Preti all’Italia fragile di Prezzolini (1974) il passo è breve. «Perché l’Italia va in malora?», esordisce l’Autore dal suo rifugio di Lugano.

E così prosegue: «L'Italia non è un paese povero, è male amministrato. Spreca, investe male, spende per educare uomini che manda a servire per l'arricchimento di altri paesi; mantiene impiegati male pagati o troppo pagati per quello che fanno male e quello che non fanno; è costretta a cedere le sue industrie agli stranieri. Insomma è un paese falso, con una ricchezza non esistente, che vive facendo debiti e firmando cambiali. Abbiamo un numero esagerato di deputati, di senatori, di sottosegretari, di ministri, di ammiragli e di generali. L'ente parastatale della Rai ha 22 direttori generali e condirettori, 27 vicedirettori, oltre 100 redattori-capo ed anche 12 mila impiegati e più di 20.000 cosiddetti collaboratori! Quando finiremo di corbellarci gli uni con gli altri? L'Italia è un paese fragile. La terra trema, il carattere trema, il denaro trema. L'economia è fragile perché dipende non soltanto dalla capacità degli italiani ma dalla disponibilità di altri paesi».

Quali i rimedi a questo stato di cose?, si chiedeva Prezzolini. «Per salvare l'Italia dal disastro non c’è un solo cenno ai rimedi, non speranza in una maggioranza, anzi nemmeno in una minoranza che ispiri fiducia e resurrezione. Si sentono tante proposte, si indicano tante vie, e tutte partono da persone che se ne intendono, ma queste persone mi paiono chiuse in una stanza, dove hanno abitato per molti anni, senza guardare fuori. Sono abituate alle loro poltrone. Il grave della situazione è che esse non suscitano in nessuna parte del pubblico fede e entusiasmo. Non ce ne è una che colpisca e che possa promettere una vita nuova all’Italia». Il guaio è che, procedendo di questo passo, l’italiano si è fatto stanco e annoiato: stanco e annoiato dei suoi stessi mali. E rassegnato. Dove mai può prendere la forza per risollevarsi e cambiare? E’ questo il regime, dice Bocca nella sua Italia malada: l’apatia generale, la mancanza di una iniziativa comune che rompa questo cerchio, questo circolo vizioso. L’italiano, dice Bocca, è stanco, “stanco di non capire, di essere preso in giro, del dire e disdire, delle menzogne plateali, del cattivo gusto che monta; stanco della vecchia, vecchissima storia dei furbi che derubano gli onesti e gli ingenui.

Stancano tutte queste guerre più grandi di noi, che comportano una sporca commedia, in un intreccio di basse furbizie, stanca persino il pensiero che questa stanchezza potrà finire in furore”. Bocca vede il rischio autoritario proprio nell'atteggiamento rassegnato degli Italiani, i quali, di fronte ad un potere arrogante che fa addirittura l’apologia del reato, si mostrano svogliati, volubili, intontiti dal consumismo e dal sesso. Un’altra “Italia malata” si trova in un libro del 2011, Caduti in corsia, che giustappunto ha per sottotitolo “Un’Italia malata”, in cui l’autore, Michele Iula, definisce il nostro paese «una repubblica fondata sulla malasanità e sulla corruzione». «Le cose vanno male, ma poteva andare peggio»: così si consolano, da secoli, gli italiani, i quali sono sempre in crisi, sempre addietro, come diceva Leopardi, degli altri popoli europei, in fatto di economia, di produttività, di commercio, di morale, di scuola, di educazione.

Il loro primo, costante e ossessivo pensiero è quello di perseguitarsi vicendevolmente, di deridersi l’un l’altro, pungendosi fino al sangue, mostrando con le parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso l’avversario “politico”, dalla mattina alla sera, da Omnibus a Otto e mezzo, da Servizio pubblico a Ballarò, da Che tempo che fa a Crozza nel Paese delle meraviglie (per citare sono alcun programmi televisivi): perché in Italia la vita si svolge sul filo della politica, la quale s’insinua dappertutto, quindi non è vero che gl’Italiani non s’interessano di politica, al contrario, vi sono dentro sino al midollo. Stendhal diceva che gl’Italiani portano lo spirito di parte anche nell’arte e nella critica letteraria e che “amano appassionatamente la libertà ma senza sapere cosa debbano fare per instaurarla”, e con tono profetico esclamava: «Tremo per i giorni futuri d’Italia. Ci vuole un Napoleone. Ma dove lo si va a prendere?». Il Napoleone venne, nel 1922, e l’Italia, almeno per un certo periodo, cambiò aspetto, radicalmente. Gl’Italiani nel Ventennio furono i primi nel mondo, offrendosi come esempio agli stranieri. «Mai come oggi l’Italia è stata così unita», scriveva il Times. «Mai come oggi la situazione politica interna del Paese è stata così salda».

Churchill addirittura si doleva di non essere italiano perché l’Italia costituiva nella evoluzione degli altri paesi «una pietra miliare» e aveva «reso un buon servizio al mondo intero». Tutti gli stranieri sottolineavano il cambiamento subìto dagli Italiani. «Il popolo italiano», scriveva Henry Monfreid, «è laborioso, sobrio, sottomesso. Queste qualità non avevano chi le sapesse far valere e andavano disperse nella confusione e nel disordine. Oggi un potente soffio patriottico emana da una forza profonda del popolo, da un mistico entusiasmo sino ad ora sparso ed incosciente». E se questo scrivevano i giornali stranieri, che dire di quelli italiani? Uno per tutti: Montanelli (che aveva scritto una lirica dedicata alle Camicie Nere) su Meridiani, un periodico bolognese, così parlava di Mussolini nel 1936: «Tante volte abbiamo tentato di sottrarci alla Sua presa, e forse nulla, quanto la vanità di questo sforzo, dà la misura del Suo ipnotico potere su di noi. Quando come uomini ci formammo, Lui era già un mito lontano, il secolo Gli apparteneva ed anche noi eravamo roba Sua. Oggi tutto ciò che facciamo è a Lui solo riferito. Il pubblico più non esiste. Quando Mussolini ti guarda è inutile tentare di recitare e di ricorrere alla suggestione di una messinscena qualunque. Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Che importanza possono avere il fez di Caporale d’Onore o la feluca di Ministro? C’è chi, per essere qualcuno, ha bisogno di ricorrere a una divisa o a un distintivo. Mussolini no. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e insofferenti, noi stessi gliele strappiamo di dosso, mirando solo all’inimitabile essenzialità di quest’Uomo che è un vibrare e un pulsare formidabilmente umani. E il resto non conta». Cosa vuol dire tutto ciò? Che gl’italiani, per guarire dai loro mali, hanno bisogno di un uomo che li metta in riga e li faccia filare dritti. Ma che non sia un “Supermario”. Armando Fraccaroli, in un suo reportage dall’estero, durante il Ventennio scriveva: «Bisogna aver girato il mondo per sapere che cosa siano il desiderio, la curiosità, l’amore della gente lontana per il nostro Paese: io ho avuto la sorpresa di ascoltarne il nome e di sentirmi chiedere spiegazioni nei più impensati Paesi dalle più impensabili genti». E dopo avere detto che in passato in Italia si notava «negli uffici, nei funzionari, nel modo di agire, in tutto, un senso di trasandata noncuranza, di meschino abbandono», lo scrittore aggiungeva: «E adesso? Cambiamento totale.

Uffici dignitosi, puliti, ben curati. Funzionari e soldati gentili, premurosi, accurati nella persona. Un vigile senso d’ordine e di disciplina, un evidente non offensivo ma fermo orgoglio di essere Italiani e di contribuire ognuno nella cerchia della propria missione alla restaurata dignità del Paese». Poi, dopo quella parentesi, la situazione si rovesciò e tutto tornò come prima. Nel 1965 Luigi Barzini nel suo libro Gli Italiani lamentava la disorganizzazione, la superficialità, il pressappochismo, il lavativismo e la confusione imperanti nel nostro paese, definiva gl’impiegati statali «impazienti, arroganti, sbrigativi, ignoranti, indifferenti alle difficoltà altrui, insolenti e talora corrotti», e quanto al rispetto della legge scriveva: «Le norme servono per regolare la vita in altri paesi, in quei leggendari paesi immacolati, bene ordinati e prosperi del Nord, ma in Italia è tutto un altro paio di maniche». E amaramente concludeva: «Non c’è scampo». Per Luca Goldoni (Italia veniale) uno dei più gravi difetti degli Italiani è quello di scaricare le colpe dei propri mali sempre sullo Stato. «Con l’alibi permanente di questo Stato che non funziona», scriveva, «ognuno si sente esonerato dalla sua parte di funzionamento, le sanzioni disciplinari appartengono a un fosco passato e, se ogni tanto i blitz dei carabinieri - che si sostituiscono a direttori generali, ispettori e capuffìci – scoperchiano i casi più clamorosi, lo standard generale resta immutabile: lo ‘Stato inadempiente’ continua a far da parafulmine a milioni di gaglioffi di ogni tipo e cilindrata. Gli italiani colgono mille occasioni per campare, anche se ogni tanto mancano l’occasione buona per diventare adulti».

Giuseppe Longo, in Arroganza del progresso, impotenza del potere, dopo avere individuato uno dei grandi mali italiani nella inerzia della maggioranza parlamentare, dovuta all’accesso indiscriminato nella politica («che ha accresciuto il deterioramento delle classi di governo, moltiplicato gli errori dei partiti e delle classi dirigenti e generato compromessi e trasformismi»), concludeva: «Tutto il sistema è in crisi e se non si comincia da qualche parte con coraggio ad affrontare la crisi per risolverla e non soltanto per arginarla, c’è il rischio di una catastrofe». Per evitare la quale, gli faceva eco Prezzolini, «tutto dovrebbe essere permesso e si dovrebbe pensare a gente nuova per farlo. Se una casa è minata e può da un momento all’altro crollare, non ci son che due vie: o la fuga, o il coraggio di andare a togliere alla mina l’innesco anche a costo di scassinare il portone d’ingresso». Gli Italiani sono un popolo di navigatori che fanno spesso naufragio. Oggi navigano fra le Isole dei Famosi, i Grandi Fratelli, gli Amici (che litigano fra di loro, fanno i sapienti e criticano i maestri) e i festival di Sanremo, che sono un pretesto per parlare, anche lì, di politica e sfogare i propri rancori, l’esibizione degli istinti più bassi, «la proiezione consolatoria delle nostre nevrosi e della nostra volgarità». Continuando così, il naufragio, morale, sarà più disastroso di quello lamentato da Francesco De Sanctis. L’Italia non è mai stata tanto malata come oggi. Chi la salverà? L’unico medico che possa operare questo miracolo è il popolo italiano, il quale solo, non tanto col suo voto quanto con la sua condotta (che include anche una giusta scelta dei suoi governanti), potrà operare quel cambiamento e quel rinnovamento che possano collocare il Paese nel novero delle nazioni più progredite e più rispettate del mondo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:11