L'università e le facoltà di medicina

Nella terza parte del diario il ricercatore di neurochirurgia ci racconta come, dopo tanto peregrinare per vivere appieno mondi sanitari tanto diversi (dal sovietico allo statunitense passando per il Regno Unito), si ritrova ad assistere al cambiamento della sanità italiana. Sul sistema sanitario regionale, ed i fenomeni ad esso connessi, si confronta persino con la sua famiglia, e perché quella degli Spallone è una storica famiglia di medici. E se il padre di Aldo godeva la stima di Compagnia di Gesù e Santa Sede, lo zio (il fratello del padre) era il luminare che ebbe in cura Togliatti: ma erano gli anni del dopoguerra, quando il nome del medico Spallone veniva fatto a Stalin, e dopo a Breznev. Ma torniamo ad Aldo, che abilmente ha portato sulle spalle tutta questa storia.

La situazione precedente era davvero consolidata, resistendo anche all’introduzione di una legge molto rigida come la Bindi. Le Facoltà di Medicina continuavano a godere d'evidenti privilegi rispetto agli Ospedali: si giustificavano (a ragione o torto) dalla necessità di svolgere attività di didattica e ricerca, proprie appunto della “Medicina accademica”, che la legge di riforma dell’Università (la 382/80 varata appunto nel 1980) aveva codificato. Tale legge di riforma sanciva appunto il diritto-dovere di ogni figura docente ad organizzare a proprio piacimento l'attività didattica, pur ovviamente integrandola in un sistema, che però aveva caratteristiche di forte autonomia: soprattutto l’attività di ricerca, questa si assolutamente autonoma. Fu comunque evidente l’impatto, a cavallo del 1980, delle due leggi di riforma (sanitaria ed universitaria) nella routine della medicina universitaria romana e del suo Policlinico, nonostante la nota capacità dell’Accademia di assorbire ogni impatto (potenzialmente pericoloso) come un muro di gomma. Ma i professori ordinari avevano di fatto dei nuovi colleghi. Quei professori chiamati da allora “professori Associati”, che fino a quel momento erano stati solo i loro assistenti. I ricercatori precari (dell’Università, del CNR, di altri centri di ricerca) divennero “ricercatori universitari”, con la prospettiva (che non tutti, ahimè, poi realizzarono) d'assurgere a “professori Associati”: in forza delle speranze si caricarono volentieri l'attività didattica e di ricerca, e le fasce superiori subito la delegarono loro. Però l’attività clinica e la sua organizzazione non ebbero un immediato cambio di rotta.

L'attività universitaria rimaneva concentrata nella mattina, il pomeriggio veniva dedicato alla clinica privata: la gestione dell’emergenza veniva lasciata di regola agli “Ospedali pubblici”, che nel contempo iniziarono ad organizzarsi in strutture autonome, non più dipendenti del “Pio istituto”. Gli specializzandi, utilizzati in genere per compiti di segreteria, diventarono gli unici medici presenti nel pomeriggio nelle cliniche universitarie: gli unici abitanti di queste nelle notti e nei giorni di festa, a parte ovviamente paramedici e pazienti. Il concetto di controllo di qualità era inesistente. Meglio, era sostituito dal concetto di “reputazione del Direttore della cattedra”, che era doverosamente di livello eccelso, non di rado indipendentemente dal reale livello. In sostanza, negli anni’80 la legge di riforma riformò poco. Ma i processi si mossero, soprattutto sotto la spinta di due fattori di novità: l’esistenza e lo sviluppo di un “Ospedale universitario” rivale, il “Policlinico Gemelli”. La crescita di ques'ultimo, in termini di organizzazione e di riconoscimento della propria qualità, ebbe un forte impatto nell’attività libero-professionale, sugli ospedali romani e sul loro personale medico. Il “Policlinico Gemelli” rappresenta un caso emblematico, un esempio imitato da altri negli anni a seguire. Iniziava la propria attività come struttura privata, di dimensioni e complessità del tutto inusuale per l’epoca.

Incontrava notevoli difficoltà finanziarie alla fine degli anni ’70, quando la Regione (che aveva assunto da pochi anni la competenza sulla sanità) era governata da una Giunta di sinistra, con assessore al ramo il Pci Ranalli. Costui fu un sostenitore delle ragioni del “Gemelli”. Fu l’artefice, nonostante le feroci critiche di parte dei numerosi suoi compagni di partito, di un accordo che sanò di fatto i debiti del “Policlinico Gemelli”. Ranalli costituiva la premessa per il suo successivo sviluppo, in termini di organizzazione e qualità ed anche di immagine. Al processo diede un impulso la vicenda dell’attentato subito da Papa Giovanni Paolo II. Così lo scrivente lasciava l’istituto di “Neurochirurgia dell’Università di Roma” (dove era entrato nel 1976) per approdare, come si è già detto, al Sant’Eugenio nel 1987: e dopo un periodo trascorso prima in Urss e poi negli Usa, e dopo essere passato alla neonata Università di Roma “Tor Vergata” (che per un paio di anni rimase senza Ospedale, si ricordi la vicenda Nicoletti). Poi “Tor Vergata” fece un accordo convenzionale con un Ospedale Pubblico, appunto il S.Eugenio appunto: una novità assoluta per l’epoca. Però presentava evidenti criticità, legate alle differenze in termini di diritti e doveri che le leggi attribuivano a medici, universitari e ospedalieri. Queste differenti attribuzioni funzionali avevano varie implicazioni pratiche. Le più evidenti erano di due tipi: la reputazione era diversa (in quanto l’universitario era considerato di livello superiore) anche se tale fatto non rappresentava sempre una realtà, cosa spesso sottolineata dal personale paramedico; la libertà di azione era diversa, poiché l’universitario attribuiva alla necessità di svolgere attività didattica e di ricerca il suo preteso diritto di non firmare il cartellino come gli ospedalieri.

Nel periodo in cui (come richiesto dalle leggi di riforma recentemente introdotte) cominciarono i controlli sulle presenze in ospedale, si scoprirono medici che erano contemporaneamente presenti in ospedale ed in strutture private dove svolgevano la loro attività extramuraria. Gli universitari, non firmando il cartellino, erano assolutamente agevolati. In una situazione così ingarbugliata quale quella dell’ospedale S.Eugenio, punto d’incontro fu trovato attraverso un accordo sulla spartizione della forza: un lavoro di gratuità, gli specializzandi vennero distribuiti in maniera da rendere più mansueti i colleghi ospedalieri, i quali vennero ulteriormente gratificati con incarichi didattici (non sempre giustificati dal curriculum), è la possibilità contemplata dalla nuova legge. In quest’ottica di logica espansione vanno interpretati anche altri elementi d'assoluta novità assoluta per l’epoca (imitati successivamente da altre realtà mediche universitarie nascenti) che diedero la possibilità alla neonata facoltà di Medicina dell’Università di “Tor Vergata” di crescere in termini di attività clinica, anche in assenza d'un proprio ospedale: il Policlinico fu aperto nel nuovo millennio. Vennero siglati accordi convenzionali con alcune realtà private (l’Aurelia Hospital e l’ European Hospital, entrambe di proprietà del Gruppo Garofalo, ed il Policlinico Casilino, del gruppo Italsanità). Accordi di reciproco interesse, che rappresentavano una novità importante con un impatto fondamentale nello sviluppo della realtà sanitaria regionale. Ma che si vuole sottolineare come permisero ad una nascente università la crescita e l'affrancarsi dalle difficoltà. Quindi di costruire le premesse per il proprio futuro sviluppo, che ha visto nell’apertura del Policlinico Universitario di Tor Vergata il punto fermo, la certezza di un futuro, adeguato al ruolo che la Facoltà di Medicina dell’Università di Roma “ Tor Vergata” si è candidata a svolgere.

Gli ospedali d'eccellenza

L’introduzione del Ssn ha reso obbligatorio la scorporo dal Pio Istituto, a cui è conseguita la riorganizzazione degli ospedali romani in realtà autonome e distinte, spesso in aperta concorrenza tra loro. Contemporaneamente la politica ha colto l’occasione, una nuova situazione dove era possibile concepire un piano centralizzato per lo sviluppo della sanità pubblica: per investire risorse importanti nella riorganizzazione e ristrutturazione dell’esistente, anche di investirne di altrettanto ingenti nella creazione di nuovi nosocomi. Sono stati così concepiti e creati il “Sandro Pertini”, il nuovo “Regina Elena - Ifo” ed il “ Sant’Andrea” (uno scheletro per trent’anni, poi costruito in un tempo relativamente breve). Si sono potenziati ospedali di altre province, che erano stati fino ad allora solo degli embrioni (Latina, Viterbo, Frosinone, Sora): sono stati ristrutturati (in alcuni casi più volte) quasi tutti gli ospedali romani. Si è assistito a nascita e sviluppo di tre nuove consistenti realtà ospedaliere universitarie, una di diritto privato, il Campus Biomedico: una novità dirompente e particolarmente interessante nel panorama sanitario locale. Il tutto con un’implementazione massiva di tecnologie di ultimo grido, e quindi la messa a disposizione dell’utenza di un numero consistente di realtà sanitarie di alto profilo. Ma a che prezzo? Solo ultimamente si è cercato, e raramente si è riuscito, di chiudere realtà chiaramente inefficienti. La rete ospedaliera regionale è stata concepita, ma mai identificata e definita nel dettaglio. Le duplicazioni dei servizi non sono mai state valutate obiettivamente al fine di stabilire se rappresentavano una situazione di sana concorrenza, e quindi un servizio migliore all’utenza, oppure costituivano solo una spesa aggiuntiva non utile. In sostanza, il parametro dell’efficienza non è stato finora un criterio per intervenire strutturalmente, cosa assolutamente necessaria, sulle criticità del sistema.

Un passato recente

A differenza di quanto avveniva fino alla fine degli anni ’90, le ultime tre campagne elettorali della nostra Regione sono state pesantemente condizionate dai problemi della sanità. Nel corso dell’ultima è stato di natura preminente il problema del deficit sanitario, riconosciuto come prioritario da entrambe le forze contendenti. Queste ultime presentavano ricette ovviamente diverse, ma con vari elementi concettualmente simili, come la necessità di certificare la qualità delle prestazioni come premessa per intervenire strutturalmente sul sistema. Le campagne del 2000 e del 2005 furono caratterizzate da due scandali che hanno certamente condizionato i risultati elettorali, ed hanno polarizzato per molto tempo l’interesse dei media: gli aborti clandestini effettuati nella clinica “Villa Gina”, che ha portato alla disintegrazione del gruppo della famiglia di chi scrive; e lo scandalo denominato “Lady Asl” che ha portato alla luce un complesso sistema di corruzione che legava politica, funzionari della sanità regionale ed imprenditori della sanità romana. A questo punto colgo l’occasione per chiarire che rapporti ho con la mia famiglia e con il gruppo che gestiva “Villa Gina”, a capo della quale c’era mio zio Mario, il medico che ebbe in cura Togliatti. I rapporti erano e sono affettuosi ma sporadici, le partecipazioni azionarie nelle varie cliniche erano incrociate, ma le gestioni rigidamente separate: le capofila erano appunto “Villa Gina” da una parte, e la “Nuova Clinica Latina” dall’altra (ma erano separate). In quest’ultima (gestita da mio padre Dario Spallone, medico ufficiale della Civiltà Cattolica, oltre che delle Ambasciate di quasi tutti i Paesi del socialismo reale). Civiltà Cattolica era la rivista ufficiale della Compagnia di Gesù, effettuare interruzioni di gravidanza era logicamente impensabile: perché non vi fossero dubbi, la convenzione per “Ostetricia e Ginecologia” fu revocata, su esplicita richiesta della stessa Clinica, e già a metà degli anni ’70. (3/continua)

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:11