Lavia resuscita il “Tutto per bene”

Dal 16 al 27 gennaio è in cartellone, al Teatro Argentina di Roma, l’opera di Luigi Pirandello: Tutto per bene, (magistralmente) diretto e interpretato da Gabriele Lavia, nella parte del protagonista, Martino Lori. Stando al più famoso critico dell’epoca (siamo nel 1920), con questo dramma Pirandello sarebbe, addirittura, regredito nell’arte sua, rispetto ai contenuti e agli schemi, decisamente originali e sorprendenti, di Così è se vi pare; Il piacere dell’onestà; L’innesto. Chissà se il severo critico Marco Praga avrebbe mantenuto quel suo giudizio, assistendo allo spettacolo indimenticabile di Lavia! Quel che conta, infatti, è la corretta descrizione dell’apparato sentimentale, dell’empatia, anche violenta, fino alla commozione e alle lacrime, che costituisce il vero, inestricabile inviluppo tra spettatore, scena, attori e messaggio morale contenuto nell’opera stessa. Nel labirinto emotivo pirandelliano, del resto, si perde volutamente la mente razionale, resa incapace di ritrovare la sua matrice logica di giudizio, lungo la sequenza degli accadimenti.

A monte del fatto, l’ingenuità di un umile impiegato, Martino Lori, che si trova ad aiutare la bella maestrina Silvia Agliani, fuggita a Roma, dopo la morte del padre, scienziato di chiara fama, per sottrarsi a uno scandalo familiare. La madre, infatti (che compare, ricca e arrogante, solo nella scena di apertura, accompagnata dal vanesio fratellastro di Silvia, per portare un dono di nozze alla nipote Palma, mai conosciuta prima!) aveva abbandonato la famiglia, per darsi a un amante, dal quale aveva, poi, avuto altri figli e con cui si era risposata, una volta rimasta vedova. Silvia, per il suo trasferimento, si affida ai buoni uffici del Lori, che la conduce dal giovane deputato Salvo Manfroni, di cui si innamora a prima vista, ma che non riuscirà a sposare, per l’ambizione di lui (la famiglia di origine della donna era, infatti, fonte di scandalo), ripiegando, così su Lori stesso, ma restando per lungo tempo amante del primo. 

In Tutto per bene, la prima direttrice morale è impostata sul ménage-à-trois, pirandellianamente racchiuso nello scrigno del non detto e sottaciuto, ma a tutti, a maggior ragione, “notorio”, tranne che al marito-protagonista, Martino Lori. E tutto ciò malgrado che questi sia costretto a subire, per vari lustri, atteggiamenti apertamente “distanzianti”, mostrati senza ritegno verso di lui dalle figure familiari, così come da quelle più lontane ed estranianti. È la recitazione accorata di Lavia, in modo particolare, a far crescere l’entropia scenica, inizialmente ristretta, nel suo mistero, all’interno di una gigantesca statua sepolcrale, posta al lato sinistro del sipario. Sarà quest’ultima che, disintegrandosi in una miriade di frammenti mentali, nell’atto finale, andrà a creare un caos emotivo senza pari, magnificamente descritto dai timbri angoscianti di un recitativo sostenuto e pressante di Lavia e dei suoi bravissimi attori. 

Da una di quelle spore avvelenate, si materializzerà, poi, il doppio tradimento di una moglie adorata, Silvia Agliani, e di quello dell’amico senatore, Salvo Manfroni, amante segreto di Silvia. Mentre la prima alterna nel suo letto marito e amante, a insaputa di entrambi, l’altro procede con l’orribile delitto (per il codice d’onore dell’epoca!) del plagio d’autore, ai danni del padre scienziato di lei, Bernando Agliani, “rubandogli” la gloria postuma, dopo averne saccheggiato e distrutto gli appunti, con la complicità della stessa Silvia! Terribile, poi, la fissità di quello specchio deformante, attraverso cui il protagonista, Martino Lori, consigliere di stato in pensione, vede scorrere per lunghi, interminabili sedici anni, la sua vita di gregario devoto e trepidante, nei confronti dell’amico e della moglie. Mai, poi, che avesse mancato, per tutto quel tempo, sia pure per un solo giorno, con qualunque tempo, di far visita alla tomba di lei, contaminando di quella sua misura di uomo tristo e inconsolabile tutto il reticolo sociale che si trovava ad incrociare. 

Per quel suo cordoglio infinito, non aveva più posato lo sguardo su di un’altra donna, lasciando perfino che l’amico, prima deputato ministro (che l’aveva chiamato, inaspettatamente, a svolgere le funzioni di capo di gabinetto, promuovendolo a così alte funzioni da semplice impiegato ministeriale), e poi senatore, ne allevasse la figlia Palma, fin dal terzo anno di vita. Anzi, Lori gliene era grato per averle assicurato un’esistenza agiata, di rango superiore al suo, e una ricca dote per sposare, pur senza amore, un nobile marchese, attempato, spocchioso e sfaccendato. Mai che si fosse accorto del disprezzo che lo circondava, avendolo ingenuamente attribuito allo stato di malagrazia, che ispirava la sua trista persona presso i suoi interlocutori.

Il secondo asse principale, invece, si snoda lungo l’interminabile contrasto fra valori veri, come l’amicizia e l’amore, e quelli apparenti del Tutto per bene, immagine impietosa di una società puritana e ipocrita, come quella italiana del Primo Novecento (la novella, da cui è tratta la commedia è, infatti, del 1906). Pirandello sceglie di concentrare la cifra valoriale più elevata sulla livida figura del Lori (e, in parte, nel profilo della governante Signorina Cei), vedovo inconsolabile di una moglie, scomparsa in giovane età, che lo aveva lasciato solo con una figlia di tre anni. La magia dell’opera trae la sua forza ambigua - che resterà senza soluzione - dal detto mater semper certa est, pater nunquam. Lungo lo svolgersi del dramma, i tuoni cupi e ricorrenti di un temporale estivo intorbidano il sonoro delle atmosfere dialoganti, facendo vibrare le vetrate altissime di una prigione apparente. A tratti, si aprono, imprevedibilmente, deliziose finestre spazio- temporali, con finissimi minuetti al “rallenty” e a ritroso, che coinvolgono tutti i personaggi rimasti sulla scena.

E se tutto questo accadesse a voi, o vi fosse già accaduto? In tutti i casi, uno spettacolo da non perdere!

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:12