Regista e scrittore, autore di cortometraggi e documentari, barese trapiantato a Roma, Giuseppe Sansonna è tra i più attenti osservatori di colui che - nel bene o nel male - è uno degli allenatori di calcio più geniali e discussi degli ultimi venti anni, Zdenek Zeman. Al tecnico boemo, dopo il fortunato documentario Zemanlandia e il volume Il ritorno di Zeman, è dedicata la sua ultima fatica, Zeman - Un marziano a Roma, libro fresco di stampa per Minimum Fax, che racconta il suo atteso ritorno nella massima serie, una nuova ascesa ai vertici del calcio dopo anni di purgatorio, una storia di riscatto e di rivalsa.
Come nasce la passione per Zeman? Tutto ha origine negli anni della mia adolescenza: cresciuto a Bari, da ragazzo mi recavo a Foggia solo per vedere le partite dei rossoneri, in quel catino meraviglioso che era lo stadio, che ogni settimana si riempiva all’inverosimile, ospitando una sorta di rito religioso. Zeman appariva come uno sciamano indossante un trench, con uno sguardo unico scolpito quasi come un capo Apache. Il suo Foggia giocava come una grande squadra, era capace di seminare il terrore nelle grandi del nord. Con il sostegno del pubblico, in una vera e propria bolgia infernale, il suo calcio era una fusione perfetta tra gioco spumeggiante e disperato, a un ritmo vertiginoso: sfidare squadre come il Milan di Gullit e Rijkaard era come camminare sull’orlo dell’impossibile, eppure accadeva realmente.
Qui è nato l’interesse per Zeman e per il suo mondo. In lui c’era del cinema e del grande calcio: da adulto ho dato forma concreta a queste passioni da adolescente. Dopo due opere su di lui, perché “Un Marziano a Roma”? Il terzo libro è legato al suo ritorno a Roma. Con l’editore si è deciso di raccontarlo partendo dalla prospettiva del ritiro, parlando del rapporto tra Zeman e la capitale, il suo rapporto con i romani. Scrivo per raccontare figure umane, dinamiche sociali, legate all’immaginario collettivo, attraverso il calcio. Quasi mai vi è un approccio tecnicistico, preferisco far prevalere altri aspetti. Churchill una volta disse che «gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre». Il calcio è fin troppo presente nella vita del nostro paese per non osservarlo e tentare di capirne le dinamiche, raccontandolo in modo diverso.
Zeman, in questo senso, è stata una chiave di lettura molto interessante, perché lui rappresenta una alterità nei riguardi dell’Italia, è un uomo altro, rispetto a tutti gli altri. Soprattutto per un elemento: è un uomo di sentimento in un paese fondamentalmente sentimentalista. Il suo non pronunciare frasi fatte nasce proprio da questo tipo di approccio, anche semplice, diretto, privo di retropensieri e di finti slanci ipocriti. Al tempo stesso, è tra i più amati e tra i più odiati personaggi del mondo del calcio (e non solo). È Zeman a non aver capito il sistema, o il sistema a non aver capito Zeman? Credo che il sistema lo abbia capito, e proprio per questo lo abbia allontanato, poiché è una mina vagante. È una persona che pretende di non rovinare le società per cui lavora, tiene d’occhio i bilanci e fa operazioni regolari e possibili, valorizzando i giocatori con lo slancio di educare i ragazzi e renderli uomini e calciatori migliori.
Riesce anche a insegnare loro qualcosa sulla vita, senza moralismi, cosa che lo rende diverso dagli altri: è stupefacente la sintonia totale di questo sessantacinquenne con atleti poco più che ventenni. Il figlio di un primario di Praga che dialoga con un ventenne di Frattamaggiore e riesce a creare una sintonia umana e tecnica incredibili: non è semplice trovare questo tipo di legame in un’Italia in cui vige un forte conflitto generazionale. È un rapporto reale, una filosofia concreta in un contesto come quello calcistico dove tutti moraleggiano e assumono di volta in volta posizioni ipocrite.
Giuseppe Brindisi, su “Pubblico”, ha spiegato perché «Chi tifa Zeman non perde mai», perchè vedere le sue squadre è uno spettacolo a prescindere dal risultato. Sono d’accordo, ma sbaglia chi crede che Zeman giochi solo per divertire, senza pensare al risultato: vuole vincere, e anche molto. Gli piace vincere, e non gioca per giocare. Capita che talvolta vi siano cedimenti strutturali della squadra da lui allenata, magari in vantaggio, perchè nei suoi calcoli la squadra dovrebbe avere la stessa intensità fino al 90esimo minuto: quando non succede, si rischia il tracollo. Programma le squadre per il pubblico che ha pagato il biglietto, trasformando lo sport in vero spettacolo, tentando di segnare fino all’ultimo, chiedendo e pretendendo concentrazione assoluta da atleti veri.
Nulla a che vedere con il catenaccio, il gioco addormentato, i palloni lanciati in tribuna: Zeman è un altro calcio. Per questo si andava allo Zaccheria, perché gli incontri erano feste, con una corale partecipazione alla tensione continua. Il ritorno ai vertici della Serie A di Zeman è una storia di rivalsa? Emarginato dal grande calcio per quanto da lui sostenuto, è riuscito a riconquistarsi un posto in prima fila? Mi piace pensare che la gente legga così la vicenda, che possa accoglierla come una storia esemplare, in cui una persona può tornare e rimanere ad alti livelli con le sue idee e con la sua coerenza etica, senza dover lasciare il posto che gli compete. Sarebbe dovuto restare nelle massime serie e sarebbe stato una ricchezza per il calcio italiano. Non importa quanto o cosa avrebbe vinto, perché non è questo il punto: lo hanno tolto dal campo, lui è tornato dove gli spetta, a generare bellezza in un palcoscenico di livello.
Non gli appartiene il concetto di vendetta: ha sempre sentito la gente vicino a lui, anche i tifosi di altre squadre gli hanno dedicato striscioni, perché percepiscono un concetto profondo, quasi un “patto di onestà”. Loro pagano un biglietto per vedere uno spettacolo, lui lo offre loro fino alla fine. “Talvolta i perdenti hanno insegnato più dei vincenti. Penso di aver dato qualcosa di più e di diverso alla gente”, pronunciò una volta. Una vittoria sarà il lieto fine per la parabola di Zeman? Sarebbe bellissimo, perché di solito questi finali romanzati, così compiuti, si trovano solo nei film. È ovvio che sarebbe il coronamento di una grande carriera, facendo bel gioco con una squadra di alto livello.
Tuttavia, paradossalmente, questo suo ritorno è già fin da ora una vittoria che vale più di molti scudetti. Nell’immaginario collettivo, Zeman è quasi come il Conte di Montecristo nel concetto romanzesco di riuscire a sopravvivere. La gente lo ama per questo, e lo ricorderà a lungo per questa impresa.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:30