Nato in Sicilia, entrò presto nella Compagnia di Gesù che, però, abbandonò quando i Gesuiti furono espulsi dall’isola, per passare (1818) all’ordine dei Teatini, raggiungendo, poi, l’incarico di Preposto Generale (1830). Nel 1821 fondò a Napoli e diresse per alcuni anni «L’Enciclopedia ecclesiastica e morale», pubblicazione relativamente progressista per quegli anni. Poi passò a Roma dove tenne un famoso corso di diritto pubblico e diede alle stampe parecchie opere giuridiche e filosofiche. Il «De iure pubblico ecclesiastico» fu molto apprezzato dal Papa, ma la successiva opera «De novo metodo philosophandi» (1828) gli procurò censure ed amarezze (le sue opere politiche e filosofiche saranno messe all’Indice).
Come il gesuita padre Luigi Taparelli d’Azeglio, anche il Ventura intervenne direttamente a favore dei moti di Palermo del 12 gennaio 1848, sostenendo la necessità di una separazione della Sicilia da Napoli, di un governo indipendente e di un’unione in una federazione unica con il resto degli stati d’Italia. Egli espose questo suo pensiero in tre opuscoli che produssero grande scalpore in tutta Italia: «La questione sicula del 1848 risolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia» (febbraio 1848); «Memoria per il riconoscimento della Sicilia come stato sovrano ed indipendente» (maggio 1848); «Le menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla questione siciliana» (fine 1848). I moti di Palermo furono i primi a scoppiare e segnarono l’inizio di quell’ondata di moti rivoluzionari che sconvolse l’Europa nel 1848-49. In che modo il Ventura passò dalla sostanziale condanna (Giornale Ecclesiastico del 1825) della Rivoluzione Francese, facendola derivare come uno sviluppo della Riforma protestante, alla condivisione dei moti di Palermo ?
È ovvio che queste tesi gli procurassero delle censure da parte della Curia pontificia; egli, tuttavia, diversamente da come farà il de Lamennais, rimase sempre fermo nella fede cattolica, fino alla fine della sua vita.
Tra il 1830 e il 1833 solidarizzò con le insurrezioni belga, irlandese, polacca e con i cosiddetti moti parigini del luglio, perché riconosceva alla base di esse la giustezza delle loro istanze di libertà, che non solo non erano contrarie alla fede cattolica, ma, anzi, si conciliavano bene con essa.
L’elezione di Pio IX (1846) e le sue riforme suscitarono le speranze dei cattolici liberali. Gioacchino Ventura divenne autorevole consigliere del papa e ispiratore delle sue riforme (istituzione di un Consiglio dei Ministri, libertà di stampa, anche se limitata…).
Fu quella l’atmosfera in cui pronunciò, nel 1847, una vibrante commemorazione del capo del movimento per l’emancipazione dei cattolici irlandesi (Elogio funebre di Daniello ‘O Connel), mettendone in evidenza la connessione tra la profonda fede religiosa e il culto per la libertà. La rivoluzione palermitana del gennaio 1848 contribuì a conferire al Ventura un ruolo più politico. Per comprendere la tipicità dei moti di Palermo, bisogna ricordare che Napoli e la Sicilia avevano avuto, per secoli, fino al 1816, istituzioni autonome, benché in certi periodi avessero lo stesso sovrano. Solo dopo il Congresso di Vienna, infatti, Ferdinando di Borbone li riunì, per cui da Ferdinando IV re di Napoli e Ferdinando III re di Sicilia, egli divenne Ferdinando I, re delle Due Sicilie, frustrando così le aspirazioni dei siciliani.
I moti di Palermo portarono alla proclamazione della Sicilia come stato indipendente, il quale sopravvisse fino al maggio 1849.
Durante questo periodo fu proclamata la Costituzione che ricalcò quella siciliana del 1812 (abolita dai Borboni) che si basava sui principii della democrazia rappresentativa e della centralità del parlamento. Costituzione cui si ispirerà lo Statuto albertino. All’interno del parlamento siciliano vi erano tre tendenze: quella filo-repubblicana, quella monarchica (che sosteneva il figlio di Carlo Alberto, Alberto Amedeo, come re di Sicilia) e i sostenitori di un’Italia unita, ma confederata, legata all’idea di Gioberti. Gioacchino Ventura auspicava fortemente la realizzazione di questa terza ipotesi.
Il Ventura venne nominato (30 marzo 1848) Commissario straordinario del governo siciliano, presieduto da Ruggero Settimo, presso la Santa Sede e vi si adoperò con grande libertà di spirito, anche dissentendo dal governo che rappresentava, ma battendosi sempre per il bene della Sicilia.
Proprio in quell’anno il Ventura pronunciò il famoso «Discorso funebre per i moti di Vienna» della rivoluzione del 1848, che fu molto criticato negli ambienti ecclesiastici e che poi sarà posto all’Indice.
Gioacchino Ventura si pronunciò contro il sostegno acritico del cattolicesimo alle monarchie ed espresse un forte auspicio per una netta separazione tra trono ed altare, nonché per il rifiuto dell’uso della religione come instrumentum regni. Quando scoppiò la rivoluzione a Roma e Pio IX abbandonò la città per riparare a Gaeta, Ventura restò a Roma: ebbe contatti con Garibaldi e Mazzini e, unico diplomatico, presenziò alle funzioni in Vaticano per la Pasqua del 1849, come rappresentante del governo siciliano. Ventura si dichiarò nettamente a favore della separazione del potere spirituale da quello temporale. Fu favorevole al ritorno del Papa a Roma, ma “come Pontefice e Vescovo, come sovrano temporale, non mai”. Dopo la restaurazione avvenuta a Palermo e a Roma, Ventura comprese che la sua posizione in Italia era irreparabilmente compromessa. Accettò umilmente il decreto della messa all’Indice di parecchie sue pubblicazioni e lasciò l’Italia per recarsi in Francia, dove suscitò l’imbarazzo dell’arcivescovo di Parigi che, perplesso, chiese al Vaticano se dovesse considerarlo scomunicato o interdetto. A Parigi ritornò a scrivere. Ricordiamo «Il potere politico cristiano» (1858) e il «Saggio sul potere pubblico» (1859) ove riprese i temi già sostenuti del legame tra democrazia e cattolicesimo. Ebbe una momentanea involuzione quando espresse un giudizio possibilista in merito alla presa di possesso di Napoleone III (il Ventura fu predicatore della cappella imperiale, alla corte di Napoleone III), ma, dopo, continuò ad esporre con fermezza le sue idee liberali. Il potere, pur se di natura divina, deve essere esercitato attraverso il popolo. La sovranità, cioè, era conferita da Dio alla comunità politica (e non al sovrano) e da questa passava al governante che l’attingeva dalla comunità politica stessa. Il potere del governante, quindi, può essere revocato in caso di tirranide. E così che il popolo siciliano, depositario della sovranità, aveva avuto il diritto di revocare il potere del re che aveva prevaricato nei confronti dei siciliani. Il Ventura condannava anche il centralismo perché con esso si dava allo Stato eccessivo potere sulla società, ai vari livelli sociali e civili. Fu una personalità complessa quella del Ventura, ma non venne mai meno alla sua convinzione di poter conciliare fede cattolica e idee liberali. Luigi Sturzo, all’avvento del fascismo, lo annoverò, per la sua dottrina e l’azione politica svolta, assieme a Gioberti e a Rosmini, come precursore del partito popolare. Successivamente egli espresse un giudizio ancora più lusinghiero, autodefinendosi “siciliano autonomista e antiborbonico alla Gioacchino Ventura”.
Puntate precedenti dedicate ai cattolici liberali:
10 e 24 giugno; 8, 15, 22, 29 luglio; 5 agosto 2012
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:34