Processo al politically correct canadese

Siamo in Canada, paese noto per la libertà di cui godono i propri cittadini, ma meno noto per le contraddizioni grottesche del politically correct in cui si dibatte il suo sistema scolastico.

Accade che un brutto giorno una problematica insegnante delle scuole medie decida di suicidarsi impiccandosi nella classe dei propri allievi durante l’intervallo della ricreazione.

Parte una poco nobile gara della preside e dei genitori a nascondere l’accaduto, ma uno o più allievi hanno visto e subito inizia anche una processione di genitori a togliere i propri figli dalla scuola che non sa come parare il colpo ed evitare una possibile chiusura. Dopo aver letto la notizia sul giornale, Bachir Lazhar, un immigrato algerino di 55 anni, si presenta nella scuola per offrirsi come supplente. Viene immediatamente assunto per sostituire la maestra scomparsa. Così si ritrova in una scuola in crisi, mentre è costretto contemporaneamente ad affrontare un dramma personale. Quello di essere un rifugiato politico algerino  ancora in attesa di una risposta da parte del Canada.

Bachir impara a conoscere il suo gruppo di bambini traumatizzati ma attenti, tra i quali ci sono Alice e Simon, due ragazzini svegli, particolarmente turbati dalla morte della loro insegnante. Mentre la classe ritorna lentamente alla normalità, nessuno nella scuola è a conoscenza del passato doloroso di Bachir; nessuno sospetta che è a rischio di espulsione dal paese in qualsiasi momento. I suoi figli e la moglie sono morti in un paese arabo dispotico come l’Algeria dopo un incendio doloso appiccato per colpire lui che si è presentato alle autorità canadesi come profugo politico. La contraddizione di Lazhar è che mentre la sua professionalità, peraltro improvvisata perché il suo vero mestiere in patria era un altro, sta aiutando la scuola a uscire dal tunnel in cui la aveva spedita il suicidio dell’insegnante, che poi si scoprirà essere stata un’egoista con problemi relazionali con uno degli allievi minorenni, nessuno invece aiuta lui nella domanda di asilo. E alla fine il paradosso è che i genitori lo costringeranno ad andarsene dalla scuola  perché i figli, un po’ bestie, lamentano troppo impegno nello studio. Sin dal primo dettato in cui prende un piccolo brano di Balzac che i ragazzini subito bollano come “francese medievale”.

Insomma l’immigrato che aiuta i canadesi a riscoprire la loro identità culturale  e l’amore per lo studio, minato dai metodi poco ortodossi e burocratici della scuola, viene cacciato con una sorta di razzismo tarato sui difetti stessi di una società apparentemente sin troppo tollerante. Del film, il regista Philippe Falardeau, che lo ha tratto da un’opera teatrale di Evelyne de la Chenelière (che nel film interpreta la madre della ragazzina traumatizzata) dice questo: «Mi è piaciuto immediatamente il soggetto dell’opera e la sua intenzione. Mentre guardavo la sua messa in scena a teatro, ho immediatamente immaginato il film: ho visto la classe, i bambini... il tocco di Daniel Brièr e la sua direzione essenziale probabilmente mi hanno aiutato a visualizzare il lavoro cinematografico. Il personaggio Alice è tratteggiato leggermente, e quello di Simon a malapena, era una storia tutta da inventare. Sapevo che c’era spazio per la creazione. Mi ha anche colpito il fatto che la tragica storia di Bachir, la sua condizione di immigrato, non fosse la parte centrale della trama. Egli si trova di fronte a qualcosa che è molto radicato all’interno della società in cui si è stabilito, ma questo confronto potrebbe avvenire ovunque. La storia doveva stare in piedi da sola, al di là dell’evento traumatico dell’esilio. Il suo dramma influisce su ciò che sta per accadere: lo rende uno straniero che sta per sconvolgere il nostro punto di vista sul mondo, ma io non credo che sia questo il vero soggetto del film. Durante la rappresentazione teatrale ho pensato:  “Qui c’è un personaggio ricco”. Non è un personaggio inventato giusto per farci chiedere quale potrebbe essere la sua caratteristica e la sua funzione. Niente di tutto questo. Bachir ha una propria storia alle spalle, la sua storia personale, prima che il film inizi».

Ciò che colpisce comunque, oltre al coraggio di indirizzare lo spettatore verso un prevedibile “non lieto fine”, è l’analisi spietata di una società apparentemente ricca e libera come quella canadese dove la gente affoga tra pregiudizi razzisti inconfessabili e una burocrazia implacabile del politicamente corretto che rende infelici sia chi la applica sia chi la subisce. Spiega sempre il regista nelle note di regia a cura delle Officine Ubu che lo distribuiranno in Italia a partire dal 31 agosto: «L’ingenuità del personaggio algerino sorprende e fa ridere. Quando si gioca sottilmente su un divario culturale, c’è spesso un ricco potenziale per l’umorismo. Il bidello e l’insegnante di ginnastica hanno costantemente scambi di battute che fanno ridere. Il bello è che non sono battute. È semplicemente che la vita è comica e penso che dovremmo saperlo cogliere. Per me i film senza umorismo sono fantascienza». La pellicola che è stata premiata nel 2012 al Sundance film festival e a quello di Toronto del 2011 ha atteso come tutti i film di qualità in Italia circa un anno perché una distribuzione indipendente osasse portarla in sala. Ora sappiamo che è anche candidato all’Oscar come miglior film straniero. Stranamente snobbato dalla critica, viene usato come riempitivo di fine agosto all’insegna dell’ «io speriamo che se la cava e fa un po’ di incasso nel popolo che va al cinema  per godersi l’aria condizionata». Un’altra dimostrazione brillante del perché nel nostro paese il cinema viene ucciso soprattutto dagli esercenti delle catene delle sale più importanti. Se in tv la cultura va in onda dopo la mezzanotte al cinema la relegano nella programmazione estiva. Piuttosto che rischiare un flop al botteghino d’autunno.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:23