Tapparelli D'Azeglio, cattolico liberale

Il suo nome di battesimo era Prospero, ma, divenuto gesuita, per una sua personale scelta in onore di San Luigi Gonzaga, assunse il nome di Luigi. Era figlio del marchese Cesare d’Azeglio ed era nato a Torino nel 1793. Terminati gli studi della Compagnia di Gesù, fu rettore del Collegio di Novara e poi rettore a Roma, all’Università Gregoriana, dove si adoperò per l’introduzione del sistema aristotelico-tomista (la cosiddetta filosofia “scolastica”). Dopo essere stato superiore della provincia religiosa napoletana, fu destinato al Collegio Massimo di Palermo: vi rimase per ben quindici anni.

Qui insegnò Diritto Naturale e nel 1843 pubblicò il Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato al fatto, che ebbe quattro edizioni e che riflette, come lui stesso disse, parecchie tesi di De Maistre. Guardò con simpatia il movimento neo-guelfo di Gioberti. In una lettera scritta al fratello Massimo, dell’aprile 1846, tuttavia, sostenne che il tono aspro da lui usato negli “Ultimi casi di Romagna“ non avrebbe giovato alla causa italiana e che l’esortazione alla ribellione in esso contenuta avrebbe determinato diffidenza nei principi e continua irrequietezza nel popolo. Non condivideva, infatti, il carattere di assolutezza che i cattolici liberali attribuivano al principio di nazionalità. Anzi, su questa questione intervenne con l’opuscolo “Della nazionalità” (1847) che fu aspramente criticato anche dai suoi due fratelli, Roberto e Massimo, e dallo stesso Gioberti. Seguendo i criteri della filosofia scolastica, indicò l’«essenza» della nazionalità nella comunità d’origine e nella lingua, e la sua «forma» nel territorio e nelle istituzioni politiche e sociali. Questi ultimi due elementi (territorio ed istituzioni) erano variabili storicamente «giacché una stessa nazione può variarli senza perdere la sua nazionalità». Il Taparelli d’Azeglio distingueva due casi nella condizione dei popoli: 1°) il caso di “soggezione debita” a un principe straniero, quando «un dritto riconosciuto ab antico dalla nazione, autenticato dalle transazioni nazionali, usato giustamente da chi n’è investito, tenga da lungo tempo una nazione o qualche sua parte sotto la dipendenza d’un’altra» e il sovrano in questione ne rispetta la lingua, la cultura e le istituzioni; 2°) il caso di “soggezione indebita”, condizione nella quale è lecito aspirare all’indipendenza, anche se «il modo di procacciarla vien determinato dai dritti de’ popoli confinanti». «Il dritto all’indipendenza trovasi così nella medesima condizione di tutto il sociale ordinamento, anzi di tutte le leggi morali, assolute nell’ordine loro astratto, contingenti e mutabili nella pratica applicazione». Rifiutò, per conseguenza, «cotesto vezzo di esortare le nazioni a “farsi” e rimproverare loro di non “essersi fatte”», perché l’unità politica - per il Taparelli - pur essendo un bene, non era un fine, ma un mezzo.

Il Taparelli d’Azeglio fu uno dei pochi che sinceramente ammirò l’opera filosofica del Rosmini. Non solo egli si astenne dal partecipare alla campagna antirosminiana, culminata, più tardi, nella condanna di alcune opere del Roveretano, ma la disapprovò esplicitamente. Scoppiati i moti palermitani del 1848, i primi che vide l’Europa, i gesuiti di Sicilia vi aderirono sin dal primo giorno. Anzi fu sottolineato, fin d’allora, che «c’era stato un rapporto di filiazione tra le scuole dei gesuiti e alcuni politici rivoluzionari del ‘48». Scrisse un altro gesuita, il padre Romano: «I fatti addimostrano chiaramente che il liberalismo gesuitico non data in Sicilia dal 12 gennaio [1848], ma è molto più antico perché possa dirsi simulato e infinto». Anche il Taparelli d’Azeglio, benché piemontese, si sentiva - come egli scrisse - siciliano di adozione e sostenne il programma autonomistico dei palermitani insorti contro Napoli. Il 22 gennaio 1848 egli scriveva così al fratello Massimo: «Ci fu chiesto un dono patriottico e donammo cento onze: piccola somma all’uopo, ma grande nelle angustie presenti… I superiori offrirono al tempo stesso i medicamenti gratuiti e le sfile per medicar le ferite… più di 1000 mangiano alla nostra porta”.

La notizia del sostegno dei gesuiti siciliani ai moti palermitani arrivò a Roma e il Superiore Generale dei gesuiti, P. Roothaan, così scrisse al Superiore provinciale di Palermo: “Molto si dice qui del p. Taparelli. Scrivere e stabilire teorie scientifiche, e nelle scuole, dibatterle, va bene; ma agire non è da noi». In merito all’accusa che gli era stata rivolta dai suoi denigratori, d’essere un liberale, egli stesso scrisse: «Se il mio Saggio Teoretico è liberale, io lo sono… giacché ho sempre ritenuto gli stessi principii». E poi continua: «Confesserò che ho un certo liberalismo, ed è quello dell’episcopato francese: quando una rivoluzione è disgraziatamente accaduta, il mio primo pensiero corre all’idea di emancipare la Chiesa dal giuseppismo insinuatosi in tutti i governi… Distinguo il liberalismo di Montalemberet e di Balbo e di O’Connel, da quello di Proudhon, di Mazzini, di O’Brien». Il Taparelli del periodo siciliano aveva previsto un’evoluzione lenta, graduale, verso forme di liberalismo cattolico. E che fosse possibile una conciliazione tra liberalismo e cattolicesimo egli lo deduceva anche dal pensiero e dall’azione di Montalembert e Lacordaire. Nelle lettere al fratello Massimo e al cugino Cesare Balbo, tornava spesso sul concetto che tra cattolici e liberali, non vi era inconciliabilità. Il momento storico in cui al Taparelli parve si offrisse l’occasione di sperimentare la conciliazione tra cattolicesimo e liberalismo, fu proprio durante la prima fase dei moti palermitani, che si era conclusa con la cacciata dei Borboni.

A tale scopo si impegnò nello studio «dei principii e delle forme organizzative della nuova società, sorta dal crollo della vecchia». Scrisse, quindi, la Legge fondamentale d’organizzazione della Società, in cui auspicava un profondo rinnovamento della società civile. Applicò, poi, questi principii alla Sicilia e affermò: «E di che mai si lagna oggi Sicilia nostra se non di aver perduta la sua unità, la sua autorità, il suo organismo, i suoi consorzi a Lei proposti per ciascuna funzione? Come Società ella dee tendere al bene suo proprio con leggi a Lei appropriate… Perlocchè il dare alla Sicilia una organizzazione fondata sul gran principio da noi sviluppato, sarebbe non solo un elemento d’ordine e di felicità, ma una base ancora di stabilità duratura». Per il Taparelli la vitalità della società siciliana doveva risiedere nei raggruppamenti locali, e non nelle tendenze accentratrici della monarchia napoletana. Egli inoltre scrisse che tutta la sua simpatia andava a «quella sincera libertà americana, che tutti “realmente” pareggia, sotto equa legge i cittadini». A tale scopo, nel 1848, auspicò: «Conviene che si trovino alcuni cattolici arditi, periti delle forme costituzionali… capaci di sagrificar se medesimi… i quali assumano l’incarico di farsi motori e di guidare con prudenza e con fermezza il senso cattolico delle moltitudini, il quale in Sicilia è, la Dio mercè, vivo e generoso». Ma gli eventi a Palermo precipitarono.

I gesuiti furono costretti a lasciare l’isola e anche padre Taparelli d’Azeglio dovette partire. Nel 1850 venne fondata a Roma, ad opera del gesuita padre Curci, la rivista La Civiltà Cattolica e il Taparelli d’Azeglio vi fu chiamato per collaborarvi come redattore (poi ne sarà anche direttore). E’ qui che avviene una trasformazione nel pensiero del Taparelli. In una lettera scritta a meno di un mese dall’uscita del primo numero de La Civiltà Cattolica, già si scagliava contro la proposta di legge Siccardi che prevedeva l’abolizione del foro ecclesiastico. Era la battaglia contro la modernità che traeva sostegno dagli orrori della rivoluzione. L’atteggiamento d’intransigenza veniva rafforzato sia dall’eccesso di anticlericalismo, per altro esistente, sia, soprattutto, dalla problematica del potere temporale, che era difeso come condizione necessaria per salvaguardare la piena indipendenza della Chiesa da ogni potere politico. Padre Taparelli pubblicò ne La Civiltà Cattolica oltre duecento articoli. Non si può subordinare - egli sosteneva - tutta la vita sociale alle leggi positive, le quali, a loro volta, possono essere sottoposte al volere capriccioso di chi governa.

Per Taparelli la società civile è composta da società minori, che non sono organismi amministrativi, ma naturali, i quali «debbono concorrere al bene comune della maggior società», che, a sua volta, ha diritti inalienabili. «Ridurre ogni parte sotto l’unico influsso centrale […] è altrettanto che pretendere di unizzare il corpo umano togliendo a ciascun membro la sua forza e tessuto speciale». Padre Taparelli vedeva la società come un insieme di varie sub-società disposte in diversi livelli. Ogni livello di società con diritti e doveri, ognuno dei quali doveva essere riconosciuto e valorizzato. Inoltre, il criterio del profitto in economia - scriveva - non può essere considerato un assoluto, ma deve essere sottoposto al principio etico della solidarietà. Morirà a Roma nel 1862.

Puntate precedenti dedicate ai cattolici liberali: 10 e 24 giugno; 8 e 15 luglio 2012

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:35