Una democrazia falsa e costosissima

Il cittadino pagante non si accorge di nulla. Non avverte di avere più democrazia, di esercitare un rapporto diretto con l’Amministratore del suo comune, della sua provincia, della sua regione, della sua comunità montana. Non avverte di tutelare meglio i suoi diritti, di avere più servizi, più assistenza, di poter colloquiare con il funzionario pubblico. Avverte soltanto che la burocrazia  aumenta, che la prepotenza e l’ignavia del pubblico dipendente (salve le eccezioni) crescono in progressione geometrica all’aumento degli enti pubblici. Verifica che non avendo “amici” nelle istituzioni e non partecipando al banchetto dei portatori di voti, alla fiera delle clientele, conta sempre meno. È molto più isolato.

Le Regioni ,costituite negli anni ‘70, lanciate nell’immaginario collettivo come il rinnovamento di tutta l’organizzazione pubblica dello Stato, hanno creato solo nuovi ostacoli al cittadino richiedente autorizzazioni, permessi, certificazioni, pareri. Quaranta anni di bilanci in rosso, pareggiati con i soldi dei contribuenti che lavorano, producono beni e servizi, creano reddito, che serve per più della metà (52%) per foraggiare la cricca degli amici e degli amici degli amici di consiglieri ed assessori.

È vero che la Costituzione della Repubblica prevedeva l’istituzione delle regioni come «enti autonomi con propri poteri e funzioni» (articolo 115), e attribuiva loro rilevanti competenze. Tra queste, la potestà legislativa in materia urbanistica (articolo 117). Alla vigilia degli anni Settanta l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione non era ancora stato attuato: erano state istituite solo, in ragione di diverse contingenze e opportunità politiche, le cinque regioni a statuto speciale: la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e il Trentino-Alto Adige (poi disaggregata nelle due province di Trento e Bolzano) nel 1948, e il Friuli-Venezia Giulia nel 1963. Perché furono istituite dopo più di 20 anni dalla approvazione delle Costituzione? I comunisti e i loro alleati socialisti, allora avevano la maggioranza elettorale nelle tre regioni centrali (Emilia-Romagna,Toscana, Umbria) e forse anche nella Liguria. Non potendo contrastare il potere centrale a causa della mancanza del consenso del popolo sovrano, lanciarono l’operazione della «mancata attuazione del dettato costituzionale, punto rilevante per il funzionamento dell’ordinamento dello stato». Ineccepibile sul piano giuridico-costituzionale, ma inutile sul piano dell’organizzazione dello stato e fonte di spreco del denaro sul piano economico e finanziario. Lo stato poteva e può funzionare molto bene con i ministeri e i loro uffici periferici, che non sono fonte di tirannia e non costituiscono un pericolo per la democrazia.

A quarant’anni dalla istituzione delle regioni ordinarie, a tredici dall’avvio delle riforme Bassanini, ed a nove dalla revisione del titolo V della Costituzione, il regionalismo italiano pone ancora domande di fondo: sulle sue modalità di attuazione, certamente, ma anche sulle concezioni che ne stanno alla base, sugli scopi perseguiti, sui risultati ottenuti, sulle prospettive future. Le regioni sono percepite dal comune cittadino come centri di spesa e di potere, che fanno lievitare prepotentemente i costi della politica. Gli esempi sono tantissimi, come l’annoso problema dei falsi invalidi: la media nazionale degli invalidi civili è del 3.3% della popolazione. Un dato enorme rispetto agli altri partner europei, che però in alcune regioni sale ancora di più. In Liguria si arriva al 3,7%, in Umbria addirittura al 4,6%. Il capitolo dipendenti pubblici delle regioni non è da meno: se in Lombardia ogni cittadino della regione spende 21 euro l’anno per pagarli, in Sicilia si arriva alla cifra stratosferica di 349 euro pro capite. I 20.000 dipendenti siciliani costano 1,7 miliardi di euro, quasi come tutti i dipendenti delle regioni italiane sommati tra loro, ovvero 2,4 miliardi di euro. Gli stessi dipendendi siciliani hanno uno stipendio che supera del 40% quello di chi lavora all’interno dei ministeri. Il costo delle amministrazioni locali è in Italia di media 44 euro per cittadino, ma ci sono regioni dove superano i cento euro: in Friuli Venezia Giulia e Sardegna i cittadini spendono 161 e 148 euro a testa per mantenere la burocrazia locale. Poi ci sono le buste paga dei vari amministratori: un consigliere regionale molisano guadagna 10.250,00 euro lordi al mese, più del presidente della Repubblica Francese. Ma se si va a vedere gli stipendi del presidente della provincia si arriva addirittura a 144 mila euro. Ma la parte più disastrata dei bilanci regionali è quella della sanità: negli anni scorsi si è speso a dismisura tanto che quattro regioni, Calabria, Campania, Lazio e Molise, si sono viste sottrarre le deleghe e sono state poste sotto commissario. Qualcuno spera nel federalismo fiscale che obbligherà i governatori a ripianare da sé i conti, magari con nuove tasse per i loro concittadini. Sono solo alcuni aspetti, peraltro marginali rispetto al flussi di denaro pubblico sperperato da regioni ed enti locali in 40 anni.

Il debito pubblico a maggio ha toccato un nuovo record storico: grava per 89.363 euro su ogni famiglia, ben 32.771 euro sulle spalle di ogni abitante. Nei nove mesi del governo Monti c’é stato un incremento di ben 1.024 euro per ciascuno dei 60 milioni di residenti, ad un ritmo di 85,3 euro al mese. Il debito pubblico ha raggiunto la quota di 1.966,303 miliardi a maggio, ossia oltre 61 miliardi di euro in più da fine novembre. Credibilità, debito pubblico, provvedimenti di risanamento non avranno futuro se si continua alla difesa ad oltranza della “Azienda pubblica”, che produce solo ostacoli ed inefficienze. La ricchezza prodotta dagli italiani viene sperperata da quella miriade di Enti pubblici (regioni, provincie, comuni, comunità montane, 5000 aziende municipalizzate, enti non territoriali, affidamenti in house e così via) che non hanno contribuito minimamente alla crescita ed allo sviluppo dell’Italia. Certo, l’orizzonte limitato di uno o più articoli di giornale non possono esaurire il grande problema della crescita del paese, ma può ben indicare una via di analisi diversa da quella che viene praticata dai difensori della cosiddetta Azienda pubblica, strenui avversari della libertà di iniziativa economica.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:13