C'era una volta un film soporifero

Non bisogna mai fidarsi dei critici prima di scegliere un film da andare a vedere. Tantomeno di uno di quegli intellettuali che, fosse per loro, premierebbero nei festival solo film turchi, afghani, iraniani e cinesi. La scuola di Muller tanto per capirsi. Infatti hanno un problema: scambiano le proprie masturbazioni mentali per la realtà, odiano i film americani, credono che il ritmo di una pellicola possa essere quello di un’anestesia totale o epidurale e ritengono di cavarsela dicendo: “che bella fotografia, che belle immgini”.

“C’era una volta in Anatolia”, il film epico di Nuri Bilge Ceylan, cineasta turco di 53 anni esaltato venerdi scorso da Ferzetti sul “Messaggero”, la pellicola «sull’oscurità dei luoghi e dell’anima», che ha atteso da Cannes 2011 a oggi per essere distribuita in Italia, a Roma proiettato solo al Greenwich, alla fine si riduce a questo: di notte tre macchine della polizia con un procuratore (magistrato) scortano due criminali ammanettati per ritrovare il cadavere di uno che da loro è stato ammazzato, passa un’ora e mezza... i criminali fanno spazientire il commissario, a un certo punto la macchina non parte e la devono pure spingere e con loro c’è anche il medico che farà l’autopsia. Finalmente si trova il morto ammazzato subito dopo una sosta in un paesino sperduto dell’Anatolia in cui tutti si rifocillano compreso il duo di delinquenti con un sindaco che ne approfitta pure per chiedere aiuto al procuratore per ottenere fondi statali per costruire un obitorio nuovo. Insomma tematiche mortaccine come quelle dei dialoghi, si parla di una moglie che aveva predetto al marito la propria morte pochi giorni dopo il parto e cosi avviene, eccetera...

All’inizio della pellicola ci sono scene in cui si pronuncia una sillaba ogni quarto d’ora come nella barzelletta dei tre eremiti, alla fine, il cadavere viene trovato e portato in una vicina città per il l’autopsia legale, c’è una piccola folla che vorrebbe linciare uno degli assassini, c’è il riconoscimento con la moglie velata e il figlio che piange dignitosamente. Inizia l’autopsia e il medico omette di dire che c’è terra nella trachea forse per non fare sapere per pura pietà che il defunto potrebbe essere stato seppellito vivo, fuori intanto moglie e figlio si allontanano mesti e durante l’apertura dello stomaco un doppio schizzo di sangue becca in faccio il medico, lui si accorge solo di uno dei due schizzi, l’altro continua a colargli dalla guancia sinistra mentre guarda con tristezza dalla finestra allontanarsi il figlio e la moglie della vittima, nello sguardo si vedono anche bambini che giocano a calcio fuori dal centro medico autoptico. Una bella fotografia ma non succede nient’altro. Due ore e mezza così, più che “C’era una volta in Anatolia”, titolo che richiama un film anche più lungo ma dove certo l’azione non manca, poteva chiamarsi “Sonno di un pomeriggio romano al cinema di fine primavera”. 

Un’anestesia totale per cine spettatori. Per me la recensione onesta intellettualmente è questa, non quella di Ferzetti.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:33