Scalfari e Repubblica, la solita storia italiana

La Repubblica nacque come scissione dal Corrierone. Come anche Il Giornale. Più o meno negli stessi anni. 

Il Corriere della Sera, padrone dell’informazione con 630mila copie di tiratura all’inizio degli anni ’70 scaricò Giovanni Spadolini e con Pierp Ottone inaugurò la lunga stagione del giornale di moderati e persone per bene che sosteneva il Pci, allora come oggi, con Ferruccio de Bortoli e Paolo Mieli contemporanei, e le varie sinistre. 

Nel ’74 Indro Montanelli se ne andò, per creare il suo Giornale (Nuovo), che, se non era secondo parametri europei proprio di destra, lo era molto secondo quelli italiani. Se ne andò con Enzo Bettiza, Gianfranco Piazzesi, Egisto Corradi, Giancarlo Masini, Antonio Spinosa, Cesare Zappulli. Ma soprattutto fu seguito da una media di 150mila lettori al giorno. Il Corrierone non si scompose più di tanto e riequilibrò l’andatura. 

Con il risultato di subire una seconda scissione, stavolta a sinistra, nel ’76 con la nascita appunto di Repubblica, creata da Eugenio Scalfari, proveniente da L’Espresso, con Gianni Rocca, Giorgio Bocca, Sandro Viola, Mario Pirani, Miriam Mafai, Barbara Spinelli, Natalia Aspesi, Giuseppe Turani e Giorgio Forattini. 

Il quotidiano di Scalfari intendeva collocarsi in un‘area ben precisa, quella tra Partito comunista e sinistra extraparlamentare movimentista. 

Lotta Continua come movimento politico si era sciolto proprio nel ’76, e l’omonimo quotidiano, diretto fra gli altri da Pio Baldelli, Roberto Roversi, Marco Pannella, Pier Paolo Pasolini, Giampiero Mughini e Alexander Langer, si trascinò fino all’82 per morire nell’anno della sconfitta terroristica. 

Le speranze di Repubblica di coniugare laiche aperture borghesi con il movimentismo ideologico giovanile andarono oltre le più rosee speranze: i primi 100mila lettori vennero raddoppiati già nel ’79. 

Come si vede, sembra quasi una storia di partiti, tra scissioni, famiglie politiche e reali che si incrociano, si amano e si tiranneggiano. E lo è una storia di partiti, perché qui l’informazione non c’entra. 

È una storia di giornali partiti legati ad aziende, banche, università ed istituzioni. A loro volta vicine a questo o a quel paese estero. In lotta per il potere, senza badare se i tempi siano di crisi o di benessere e soprattutto senza guardare agli effetti reali sul paese. Il Corrierone, rimasto faticosamente giornale di maggioranza, ha continuato a dimostrare una molle grandezza, facile a seguire le tendenze più che a farle. Il Giornale fin da subito si presentò come un giornale cui non ci si abbona, ma ci si iscrive: il presidio del buon senso, della tradizione illuminata e della qualità letteraria e non. 

Tutte qualità finalmente liberate dai papocchi bigotti, clericali, nostalgici, pseudofascisti e qualunquistici da Dc, Lauro e Giannini, dove sembrava dover cadere senza speranze il voto moderato e dove decenni dopo tornerà con Berlusconi, vero melt di tutti quegli elementi. 

Invece il partito-giornale riuscì a crearlo il gemello di Scalfari, destinato a conquistare la borghesia progressista e non solo. Il trucco di Repubblica fu di scegliere i nemici. 

Sugli amici sbagliò sempre, come è stato ricordato, da Ciriaco De Mita, Walter Veltroni, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Renato Soru, fino al Roberto Saviano odierno che non a caso rifiuta l’alloro offertogli per la semplice ragione che porta una sfortuna blu. 

I nemici però, Repubblica li ha scelti con minuziosa ricerca scientifica, così accurata da farla apparire un motus sincero fatto di indignazione e cuore. Molto prima di Berlusconi. 

Da principio, tutto cominciò con i socialisti e con Bettino Craxi. Con la P2, nella cui tagliola caddero fin da subito in tanti, dal nuovo direttore del Corrierone Di Bella allo stesso Turani, già peraltro in odore di craxismo. 

Gli stessi magistrati, quelli del teorema sette aprile, all’inizio furono classificati come nemici. Col tempo e grazie ai giusti interpreti, il giudizio e gli atteggiamenti della controparte si rovesciarono in  consapevole alleanza. 

A fondare Repubblica c’era un razzista antifinanza che accusava tutti di socialmafiosismo, c’era una spia del Kgb detta Zukhov, c’erano giornalisti provenienti dall’Eni verso il Pci e viceversa, c’erano figlie celebri e figlie d’arte divenute celebri facendo coppia con celebri deputati (ovviamente Pci). 

Non mancava una visione intelligente del romanticismo femminile filtrato dal salotto borghese, una visione così intelligente da credere vere decine e decine di lettere inviate da un buontempone. Insomma non era in realtà una compagnia irresistibile. Il mattatore è un provinciale, tra Calabria, Civitavecchia e La Spezia: se il primo Montanelli giornalista scriveva per francesi e americani, il nostro comincia subito con il giornalismo politico, l’unico esistente in Italia, quello fascista. 

Nel dopoguerra, è il matrimonio che lo imparenta con l’ambiente della stampa liberale e de L’Opinione ad introdurlo ad alti livelli. 

Già bancario, per arrivare al grande giornalismo deve passare dalla carriera amministrativa. È il ritratto dei nostri padri che veramente credettero agli ideali della nuova grande patria, culmine delle speranze risorgimentali, e che, distrutti nell’esito bellico, applicarono l’arte di arrangiarsi e di promuoversi, appiccicandole sopra di volta in volta smaglianti idealità, moderne e progressiste. Sotto l’apparenza, tuttavia, ciniche come gli ideali persi in gioventù. 

Fondatore radicale, deputato di quel Psi che gli fece risparmiare la galera, Eugenio Scalfari seppe costruire un giornale di grande attrattiva, usando e seguendo i trend dell’epoca, usandoli però per volgerli alle dottrine del monarca illuminato e degli idoli dell’antidemocrazia progressista. 

Non a caso l’interscambio Repubblica e Unità è stato continuo. Se Il Giornale mostrava tanta intelligenza da far sentire il lettore stupido o non all’altezza, Repubblica crebbe con lo stile della banalità indorata con intelligenza. Il suo lettore si è sempre sentito come accolto, da intelligente, tra intelligentoni. 

Col trucco stalinista di raccontare la realtà con lo schematismo sciocco ma geometrico rodariano. 

Qualunque caso, qualunque scandalo, qualunque indignazione poggia sempre sullo stesso schema facile ed antico come il mondo. 

Il modo, le accuse, il fango, la voglia dell’inclito di vedersi raccontare la scena come fosse vera, Repubblica l’ha copiato dal processo stalinista, da quello dell’Ochrana, da quello austriacante, ed ancora più su da quelli orditi dai vincitori delle fazioni fiorentine. 

Resta solo da chiedersi come abbia fatto il mondo laico a restarne incantato, e come abbiano fatto anche i conservatori, i benpensanti ed i tradizionalisti a farsene convincere. Forse sono state le vittorie conseguite una dopo l’altra in patria, nell’agone della libera stampa e della finanza nostrana. 

Ora che tutto della Repubblica sembra demolito, il giornale omonimo chiude il cerchio. Ha distrutto i nemici ed ha quasi distrutto anche gli amici condotti in una infinta e senza senso battaglia campale. 

La dimostrazione di forza delle idee mai avute si celebra assieme ai poteri forti in quella Bologna già patria putativa del movimentismo originariamente sostenuto. La festa della Repubblica si celebra con la polizia schierata a picchiare i nipotini eredi dei primi sostenitori. 

Alla repubblica italiana viene fatta la festa. Il tradimento degli ideali sbandierati degli anni ’70 è palese; segue altri tradimenti, del totalitarismo progress dell’Est e di quello nostrano. 

In fondo è la solita storia italiana, le carriere traverse, i buoni matrimoni, le amanti segretarie, i martiri senza pericolo ed i pericolanti non citati. 

Ed è di questo che seriamente si dovrebbe discutere, pacatamente, sottovoce, democraticamente, marzullianamente, se non debba andare alla sbarra, Repubblica, per un reato che esiste e che non osiamo non dire ma neanche pensare. 

Alto tradimento della repubblica. Che questa storia di ironica gentile ed affascinante meschinità, abbia almeno qualcosa di alto.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:23