Facebook, Twitter e compagnia: i social network vanno di moda e non solo tra i teenagers. Cambiano la vita di relazione, e questo è certo. Ma cambiano davvero anche il mondo del lavoro, l'organizzazione aziendale, il curriculum che serve per essere assunti? Pare proprio di si. E' quel che è emerso dal Social Business Forum che si è tenuto il 4 e il 5 giugno a Milano e che ha riunito poco meno di duemila tra esperti mondiali e appassionati del settore.
L'era della "pull organization"
C'era una volta la "push organization", guidata
dall'alto, sottoposto a rigida gerarchia. Ora la tecnologia,
internet e i mezzi che permettono il social networking stanno
cambiando il modo di lavorare, di studiare una strategia, portare
avanti un progetto. Ci si rende man mano conto che la "pull
organization" è più produttiva. E chi non riuscirà a riorganizzare
il proprio lavoro, utilizzando al meglio questa rivoluzione,
semplicemente, rimarrà un passo indietro.
La rivoluzioni di cui parliamo è ormai cominciata da tempo. Era il 1999 da Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger scrivevano "The Cluetrain Manifesto": un insieme di 95 tesi (come quelle di Martin Lutero) organizzato e presentato come un manifesto, o invito all'azione, per tutte le imprese che operano all'interno del nuovo mercato interconnesso. «È cominciata a livello mondiale una conversazione vigorosa - si legge nel "Cluetrain Manifesto" - Attraverso Internet, le persone stanno scoprendo e inventando nuovi modi di condividere le conoscenze pertinenti con incredibile rapidità. Come diretta conseguenza, i mercati stanno diventando più intelligenti e più velocemente della maggior parte delle aziende». Il Manifesto esaminava l'impatto di Internet sia sui mercati sia sulle organizzazioni. E spiegava che mentre i consumatori erano già in grado di utilizzare Internet e Intranet per stabilire un livello di comunicazione precedentemente non disponibile, le aziende e le organizzazioni in generale erano rimaste indietro. Il manifesto suggeriva perciò i cambiamenti necessari alle organizzazioni per rispondere al nuovo ambiente che la Rete aveva già creato. Di fatto il "Clue train Manifesto" diventò presto un manuale per il marketing su internet.
Da quel manifesto, oggi, a 13 anni di distanza, hanno preso spunto gli organizzatori del Social Business Forum. Emanuele Scotti, Rosario Sica e Emanuele Quintarelli, hanno pubblicato così il loro "Social business manifesto", 59 tesi (per cominciare, perché si tratta di un progetto aperto) che formano un vademecum per le aziende. Perché ancora una volta, se vogliono stare al passo con il mondo in cui agiscono, devono cambiare. E tenere conto del fatto che «i meccanismi collaborativi stanno cambiando radicalmente il modo in cui i mercati funzionano e il modo in cui le organizzazioni creano valore».
Scrivono gli autori: «Il modo in cui abbiamo concepito sinora l'organizzazione delle nostre aziende non funziona più. Abbiamo fatto del management una scienza; abbiamo cercato di trasformare le persone in macchine; abbiamo segmentato i compiti togliendo significato alle cose che facciamo mentre lavoriamo; abbiamo spersonalizzato per cercare di controllare l'organizzazione; abbiamo cercato di standardizzare il lavoro per garantirci la possibilità di replicare le prestazioni senza imprevisti. Questa organizzazione ha funzionato molto bene fino a quando il tema era replicare. Diventa un modello che funziona molto meno bene quando il valore che le persone sono chiamate a generare ha a che fare con la conoscenza, con l'innovazione continua, con il mondo dell'intangibile. Noi non abbiamo l'organizzazione e la tecnologia giuste per l'epoca che stiamo vivendo».
Il fatto è che rivoluzioni di questo genere sono accadute spesso nella storia dell'umanità. E ogni volta la capacità di sopravvivere passava dall'attitudine ad adeguarsi alle nuove regole. «Come è già successo ai tempi di Cristoforo Colombo - scrivono ancora gli autori del "Social Business Manifesto" - anche noi abbiamo bisogno di nuove mappe; soprattutto perché è molto difficile gestire le cose che non siamo neanche in grado di vedere. E queste nuove mappe devono obbligatoriamente fare i conti con l'infrastruttura tecnologica che si è costituita negli ultimi anni - il Web, in particolare la sua componente Social - la quale è interessante non solo in sé, ma per i comportamenti sociali che consente».
La popolarità in rete sbarca sul
curriculum
Klout è una delle "mappe" che sta riscuotendo più successo. Anche
se gli scettici non lesinano critiche e sollevano dubbi sulla sua
reale efficacia. Secondo chi l'ha inventato, Klout è in grado di
misurare la popolarità di cui ciascuno di noi gode sui social
media. Un solo numero, su una scala da uno a cento, indica con
immediatezza la capacità di chiunque sia attivo in rete di
influenzare altre persone. Se il vostro punteggio Klout sarà
abbastanza alto, in un futuro molto vicino potreste ottenere
sconti, regali, trattamenti da Vip. Se sarà troppo basso, invece,
potreste persino perdere punti in un colloquio di lavoro.
Negli Stati Uniti accade di già. I cacciatori di teste e i responsabili delle risorse umane di alcune grandi aziende cominciano a prendere in considerazione il punteggio Klout per valutare i candidati da assumere. E, in alcuni casi, anche un'esperienza consolidata non riesce a rialzare le sorti di un colloquio minato dalla scoperta di un punteggio Klout troppo basso. Ma come funziona? Un po' come il motore di ricerca Google quando cerca di valutare la rilevanza di ogni pagina web, Klout cerca di stilare una sorta di graduatoria dell'influenza di ogni persona in rete. L'algoritmo che è alla base del sistema combina tra loro i dati che provengono dai profili social di ogni singolo utente. Chiunque abbia un account su Twitter, ad esempio, ha già un punteggio Klout, anche se non lo sa. L'account Twitter infatti è pubblico e (a meno di un esplicito divieto) i dati possono essere letti direttamente dall'algoritmo di Klout. Per avere un punteggio maggiore occorre esplicitamente consentire a Klout di avere accesso a propri dati su quei social media che consentono agli estranei minor facilità di accesso (come Facebook, LinkedIn o Google+). Il punteggio viene calcolato considerando una serie di parametri quantitativi, il numero di amici e di "like" su Facebook; di follower e retweet su Twitter. Ma anche la frequenza con cui aggiorni il profilo e persino il punteggio Klout di chi ti segue o chi interagisce con te.
Potrebbe sembrare un gioco innocuo e una divertente sfida on line, se non fosse che alcune aziende hanno già cominciato a corteggiare con regali, sconti, trattamenti privilegiati chi ha un punteggio Klout abbastanza alto da poter influenzare con i suoi commenti positivi un'audience abbastanza ampia. E mentre produttori di beni e servizi sono impegnati ad immaginare il modo migliore per utilizzare questo nuovo parametro per ampliare il proprio business, c'è già chi ne mette in dubbio l'affidabilità. Anzi, c'è chi dice che Klout in realtà serva a poco o a nulla. Per il semplice motivo che il suo approccio è puramente quantitativo. Misura quante interazioni ha una persona attraverso i propri account social. E se le interazioni fossero semplicemente una marea di insulti? Varrebbe la pena per un'azienda offrire trattamenti Vip all'utente più insultato del web?
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:13