Uno scudetto da febbre a 90°

Chissà se Liam aveva immaginato di passare un pomeriggio del genere. Si, certo, quei festeggiamenti li aveva sognati per chissà quante notti. Il gesto della bottiglia di champagne strappata in tribuna autorità al fischio finale lo aveva provato e riprovato. Forse, però, non aveva immaginato tutti quei 90 minuti di passione in cui la sua squadra del cuore, il Manchester City, era andata incredibilmente sotto con il Qpr.

Forse non aveva immaginato che un sogno inseguito 44 anni potesse svanire in un pomeriggio insolitamente di sole nel nord dell'Inghilterra. Perché il City l'ultimo scudetto lo aveva vinto quando Liam doveva ancora nascere. E nemmeno suo fratello Noel ne aveva memoria alcuna, visto che era ancora in fasce. E chissà se in quel pomeriggio Liam avrà pensato a Paul, il protagonista di "Febbre a 90", il celeberrimo romanzo di Nick Hornby che fugge da casa per non vedere gli ultimi minuti della partita del suo Arsenal e si perde il gol in pieno recupero di Michael Thomas che regala il titolo del 1989 ai Gunners.

Chissà se Liam avrà pensato al fratello Noel, con il quale ha litigato per una vita intera, ma con il quale condivide l'amore per i citizens. Chissà se il terzo scudetto della storia dei City diventerà un libro o una canzone, visto che Liam e Noel di cognome fanno Gallagher e insieme - prima della litigata definitiva - erano semplicemente gli Oasis. Chissà se avranno pensato a quando da bambini seguivano le avventure della loro squadra del cuore. Noel e Liam hanno passato novanta minuti infernali, così come il Paul di Nick Hornby, o il ragazzo con i capelli rossi che magari si chiamava James, con le mani in bocca mentre la sua squadra perde o la biondina che piange perché non crede che il miracolo possa accadere. Uno fa la rockstar, uno lavora al porto di Manchester, l'altra fa la parrucchiera, ma tutti sono uguali davanti al pallone, democratico come poche cose altre mondo. Perché se Dzeko e Aguero non avessero segnato al novantunesimo e al novantaquattresimo, la villa londinese di Liam sarebbe stata desolante come il monolocale di James, mentre adesso tutto è diverso.

Tutto sembra un enorme parco giochi e anche lavare capelli a signore di mezza età sembra bello come cantare Supersonic davanti a centomila persone. Chissà cosa avrà pensato Noel mentre il fratello Liam stappava quella bottiglia di champagne. Magari avrà avuto voglia di abbracciarlo. Magari avrà deciso di tornare a suonare insieme almeno una volta, solo per festeggiare la storica vittoria. Probabilmente l'avrà invidiato, visto che per impegni con la sua nuova band non era allo stadio, bensì lontano più di mille miglia, a Santiago del Cile, in un bar dove ha confessato «di aver pianto come un bambino» e di aver detto «parolacce a ripetizione, perché tutto ciò è stato sconvolgente». Si, sconvolgente, perché lo scudetto stava volando via in modo incredibile a favore non di una squadra qualunque, bensì dei cugini del Manchester United. E non cugini qualunque, perché qui non parliamo di Roma e Lazio (tre scudetti a due) bensì di 19 titoli per lo United e appena tre (con quello di domenica scorsa) per il City. Non so se l'idea è chiara, in una città dove il calcio conta ancora di più e una vittoria della tua squadra del cuore può attenuare quel grigio infinito che finisce la sua corsa sulle fabbriche che si susseguono, quasi abbracciate, una dietro l'altra.

Perché a Manchester di stile british c'è ne è ben poco, visto che Sir Alex Ferguson, tecnico dello United, in perfetta "rosicata" romana ha detto che «avranno bisogno di cento anni per eguagliare le nostre vittorie», mentre Tevez - ex United e ora al City - esponeva un cartello con su scritto «Sir Alex, rest in peace». E poco importa se i soldi di uno sceicco (Mansur) rendono la storia meno fiabesca, forse più scontata, perché in fondo i soldi non sono tutto (chiedere al Psg di Ancellotti per conferma). E poco importa se al tecnico del City, il nostro Roberto Mancini, spesso si riconoscono meriti limitati perché allena squadre con mezzi economici illimitati. Di certo, lui ha vinto. E spesso le sue sono vittorie da romanzo. Chi non ricorda la Sampdoria di Vialli e Mancini, quella dell'unico scudetto del 1991? E nel 2000 quando guidò la Lazio al secondo titolo della sua storia? È indubbio che da calciatore Mancini non è stato di certo agevolato dal denaro dei suoi presidenti - come è avvenuto da allenatore - ma anche sapersi far comprare i giocatori desiderati è un merito. E poi, in panchina così come in campo, è un predestinato. Appena viene chiamato a guidare la Fiorentina nel 2001 al posto di Terim, conquista subito la Coppa Italia. Con la Fiorentina, mica con la Juve. Successo bissato nella stessa competizione con la Lazio, che però è in parabola discendente per le vicissitudini finanziarie del presidente Cragnotti.

Poi va all'Inter e comincia subito alla grande, vincendo Coppa Italia e Coppa Uefa, prima dello scudetto del 2007 per un trionfo che all'Inter mancava dal 1989. Per non farsi mancare nulla, il Mancio pensa bene di vincere il tricolore anche l'anno successivo. Insomma, bravo a farsi comprare i giocatori forti, ma anche bravo e basta. E così, eccolo a Manchester, perché uno da romanzo come lui non poteva che finire nel campionato che più di ogni altro sembra una lunga, infinita, storia da raccontare. Eccolo lì con la sciarpa immancabile, il ciuffo impeccabile e il look più anglosassone degli stessi inglesi. Eccolo arrivare quasi alle mani con il collega-rivale Ferguson, perché british o non british, Roberto è sempre quello che si tolse la maglia della Samp e andò via dicendo "non gioco più, non gioco più" in polemica con una decisione arbitrale. Ed eccolo alla fine esultare come mai aveva fatto prima, praticamente in braccio al suo secondo David Platt, perché un finale di campionato così, non si può festeggiare con troppa compostezza. Perché un finale così è come la corsa per le scale di Paul che cerca disperatamente di arrivare davanti al televisore e si ritrova in braccio all'amico Steve.

Roberto e David, come Paul e Steve. Perché lo sport, spesso, è una grande storia. Da raccontare in un libro, in un film o più semplicemente nei volti dei tifosi che in pochi secondi - di sequenza in sequenza - alternano tutti gli stati d'animo della vita. In un «altro pomeriggio di sole» come quello di Manchester, perché «oggi è il giorno che tutti vedranno». Così cantavano due famosi fratelli, Liam e Noel. Che magari, anche se a distanza, si saranno riabbracciati nel nome della feda calcistica. Come tanti altri. Come Roberto e David. Come Paul e Steve.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:09