Quel Titanic che ha invaso la Tv

È il 5 aprile 1912: il Titanic, il più grande transatlantico mai costruito, affonda. Cento anni dopo, la nave della White Star continua ad affondare per la gioia degli spettatori di ogni età e mezzo. Infatti, mentre il capolavoro di James Cameron torna al cinema in tre dimensioni, continuando a mietere milioni di incasso e permettendo a Canale 5 di replicare il film sul piccolo schermo, Rai 1 presenta Titanic. Nascita di una leggenda, miniserie in 6 parti, co-prodotta dalla stessa Rai assieme a Dap Italy ed Epos Film (budget complessivo di 24 milioni di euro tra Italia, Inghilterra e Stati Uniti), per raccontare la costruzione del transatlantico, il rapporto tra operai e classe dirigente con le prime lotte sindacali e i prodromi di un radicale scontro di classe. 

Un progetto interpretato tra gli altri da Alessandra Mastronardi (stella nascente anche all'estero dopo To Rome with Love di Woody Allen) e Massimo Ghini, di cui la rete pubblica italiana è guida, che fa notare produttivamente lo scarto col resto della fiction made in Italy e che si pone come la punta dell'iceberg (anche se può sembrare cattivo gusto) di un'ondata di riproposizione multimediale dell'affondamento più celebre di sempre, tanto da far sospettare come la celebrazione di un evento tragico, benché leggibile a vari livelli, da quello sociale a quello culturale passando per quello tecnologico.

Oltre al film vincitore di 11 oscar e alla miniserie diretta da Ciaran Donnelly - originariamente intitolata Titanic: sangue e acciaio -, i palinsesti nostrani e gli scaffali dei negozi segnalano un abuso di progetti, più o meno validi, più o meno parassitari, sul relitto per eccellenza di un'epoca (gli inizi del '900, ma anche gli anni '90 della Di Caprio mania): la Dall'Angelo Pictures ha prontamente distribuito una miniserie inglese dall'originale titolo Titanic, creata dal Julian Fellowes di Gosford Park e Downton Abbey, in cui il naufragio è messo in scena come allegoria della divisione in classi nell'Inghilterra di inizio 20° secolo; Rete 4 proporrà un pessimo tv-movie dall'incredibile titolo di Titanic, vero e proprio spionaggio industriale interpretato da Catherine Zeta-Jones con cui la televisione batté di qualche mese (il film è del '96) l'opera di Cameron, riprendendo per filo e per segno la struttura. Per tacere della messe di documentari, docu-fiction e simili che da La7 a History Channel, passando per quasi tutti i canali documentaristici della piattaforma Sky, raccontano ogni dettaglio della nave, dalla costruzione alle minuzie macabre dell'afondamento e del salvataggio dei passeggeri. E in testa ci sono proprio le opere di Cameron, che dal '97 fino ad Avatar è rimasto con la testa negli abissi dell'oceano dove giacevano i resti del transatlantico e realizzando molti lavori - tra cui uno realizzato mentre lavorava alla stereoscopia del "nuovo" Titanic - che gli permisero anche di sperimentare il 3D.

La tv cavalca l'onda anomala di un dramma epocale e l'abisso si tocca quando Bruno Vespa, armato di bacchetta e plastico del Titanic, come fosse un'altra casa di Cogne, impiega più tempo a raccontare come sia stato costruito il modellino che a sviscerare (come se ce ne fosse stato bisogno) i risvolti dell'evento. Al momento della scrittura, manca solo Giacobbo con Voyager all'appello, ma siamo certi di essere smentiti. Nemmeno nel 1997, quando il film suddetto arrivò in sala diventando l'incasso più alto di sempre (titolo perso poi a causa di Avatar), i media si gettarono a capofitto, come spettacolari avvoltoi, sulle 1500 vittime e sui 700 sopravvissuti. Cosa è accaduto?

Il centenario si potrebbe dire: e in effetti si potrebbe avere ragione. Un anniversario è qualcosa di simbolico che però ha effetti evidenti e concreti sulla psiche e sull'immaginario collettivo: basti pensare ai 12 mesi di patriottismo italico dell'anno scorso, in occasione del 150° anniversario dell'unità d'Italia, con luci e bandiere tricolore ovunque. E via elencando: morti, nascite, inaugurazioni eccetera servono a dare forza alla memoria storica che in un momento di presente continuo, di realtà aumentata dalla tecnologia, potrebbe trovarsi in difficoltà. Ma una cosa è celebrare, un'altra è lucrare. E il discrimine, sottile e non sempre intellegibile, è nella qualità di ciò che viene proposto, nell'onestà dei prodotti che vanno ad aumentare le fila del ricordo, dell'omaggio, spesso posticcio. 

Così come sentivamo odore, per non dire puzza, di marcio quando uno show di Rai 2 proponeva una sfilata di talenti italiani facendoli "scontrare" col televoto, così non possiamo non drizzare le antenne se il profilo o peggio la sezione del Titanic va in onda su tutte le reti, a canali unificati, come un discorso presidenziale a S. Silvestro. Ci sono perciò varie questioni in ballo: innanzitutto, un ferro freddo da 15 anni si è improvvisamente riscaldato - e nemmeno poco - per cui le produzioni e le reti tv non possono che tornare a batterlo di nuovo, contando sul fatto che l'ormai ristretto pubblico tv, anche quello potenzialmente più intelligente e selettivo del satellite e delle reti tematiche, è tendenzialmente pigro, abitudinario, amante delle variazioni sul tema più che dei prototipi, dei seguiti, delle repliche e delle serie più che delle prime tv e delle sperimentazioni. Non sta a chi scrive fare critica culturale, ma limitarsi a constatare un fatto che si lega a doppio nodo con la mancanza di idee e capacità creative nell'industria audio-visiva di mezzo mondo: il pubblico è pigro perché la tv non gli fornisce stimoli, e la tv non sa più fornirli perché non ha più un pubblico con cui confrontarsi. 

Sono generalizzazioni, e possono anche lasciare il tempo che trovano, però non si può maliziosamente non pensare a come il binomio grande tragedia sociale/evento spettacolare sia lo stesso della narrativa (letteraria, cinematografica o televisiva) popolare su cui si fonda il racconto da secoli a questa parte: mettere in scena l'atrocità della morte stuzzicando il senso del meraviglioso - e pure quello di colpa, se borghese meglio - è un arma vincente in ogni tempo, a ogni latitudine. Che ci si chiami Cameron, Donnelly o Bruno Vespa, chi non si è fermato in autostrada a vedere un incidente mortale per vedere se c'è del sangue ai lati della strada?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:18