Diaz, onestà intellettuale e ipocrisia

"Essere onesti intellettualmente" e non solo "onestamente intellettuali". In un ideale taccuino da portarsi dietro il prossimo 12 aprile quando in decine di sale italiane sarà finalmente proiettato "Diaz", il film evento sui fattacci del G8 del luglio 2011 a Genova premiato anche alla Berlinale con la menzione speciale, presentato giovedì scorso in pompa magna dalla Fandango di Domenico Procacci al cinema Barberini di Roma, bisognerà ricordarsi di scrivere questa frase. Anche solo questa. Perché lo spettatore non dovrà possibilmente farsi distrarre dalla propria eventuale allergia ideologica per la sinistra no global tanto da volere negare a priori che in effetti tra Bolzaneto e la scuola Armando Diaz, quella che dà il nome al film, qualcosa di poco ortodosso sia in effetti avvenuto tra e con le forze dell'ordine. Ma al contempo il regista che magari sarà in qualche sala romana a fare il discorsetto e a ricevere gli applausi compiaciuti di chi sta, senza "se e senza ma", dalla sua parte, non dovrà maramaldeggiare facendo finta, nel trionfo del proprio ego così appagato, che una intera città non sia stata messa ferro e fuoco per giorni da una marmaglia di imbecilli venuti da mezza Europa e pagati chissà da chi. Tra questi due corni del dilemma si consumerà l'empatia di onestà intellettuale tra regista e spettatore. 

A meno che entrambi non scelgano la comoda scorciatoia dell'essere "onestamente intellettuali", e come tali tirare esclusivamente acqua al proprio mulino ideologico. Per prima cosa a Daniele Vicari andrà segnalato il seguente problema di sceneggiatura: Elio Germano che dovrebbe essere l'attore protagonista viene seguito fino al proprio ingresso nella scuola della cosiddetta "macelleria messicana". Ma una volta insieme agli altri sciamannati del Genoa social forum, regista e sceneggiatore se lo scordano e lo rivedremo insieme a tutte le altre comparse solo nel ruolo del picchiato  a sangue e ricoverato in ospedale. 

Ci si poteva  tranquillamente risparmiare il suo compenso se dovevano utilizzarlo così. E a Berlino questa cosa la dicevano all'uscita della sala un po' tutti i critici anche quelli che leggerete sperticarsi di lodi per il film nei prossimi giorni. Per il resto la pellicola si approfitta, letteralmente e burocraticamente, della realtà come venuta sinora fuori dalle carte processuali, spacciandola per oggettiva e possibilmente idolatrandola. 

La scena del celerino che si squarcia da solo il giubbetto anti proiettile con un coltello da sub è la trasformazione di un'ipotesi dell'accusa mossa dai pm genovesi in un elemento cardine della sceneggiatura. Un'ipotesi che forse diventerà entro un paio di anni sempitura verità processuale con un verdetto definitivo che chiuderà in fretta quest'ennesima brutta pagina dell'eversione italiana e della sua repressione uguale e contraria. Ma da qui a fare di questo film un cult movie da centro sociale ce ne corre: intanto perché tutto quello che passa per le capaci mani del distributore Procacci si trasforma sub speciem del "fighettismo" e quindi la pellicola subirà le inevitabili critiche dei duri e puri che avrebbero voluto anche un po' di complottismo sulla presenza dei  black bloc a Genova. E poi non sarà tollerata la sfumatura del poliziotto in crisi di coscienza, quello che poi parlerà di "macelleria messicana", perché il "movimento" non ama il grigio e preferisce ancora i film da "cineclub dell'ideologia" tutti rigorosamente in bianco e nero. Non faccia però lo spettatore l'errore tipico di alcuni sindacati di polizia, che fanno della difesa corporativa il loro unico credo: a Genova qualcosa di enormemente sbagliato accadde anche tra le forze dell'ordine. Solo che, con quel casino aizzato dalla sinistra per mettere tra i piedi del secondo governo Berlusconi un bel morto (che puntualmente la piazza ha sfornato), forse non era facilissimo compiere bene il proprio dovere. E infatti quegli uomini non ci sono riusciti. Evitiamo quindi la retorica della strage o dell'omicidio di stato. E in cambio non scagliamoci contro il regista che ha voluto prendere gli atti del processo ancora in corso per spiegare la sua idea di quello che veramente accadde a Genova e alla Diaz in quei maledetti giorni di metà luglio 2011. 

Piuttosto la Fandango forse dovrà spiegare il perché dei tagli alla fine della pellicola. Soprattutto quelli precedenti i titoli di coda: non c'è più il nome del prefetto De Gennaro tra i condannati, come invece si era letto a Berlino, non ci sono le immagini dei poliziotti condannati accanto alle facce degli attori che li impersonano nei film e non c'è più la storia dei singoli manifestanti che hanno fatto denuncia. Una concessione al timing molto lungo della proiezione o al consueto politically correct del mercato interno per cui le vergogne italiane vanno esposte solo ai festival?

Il pugno allo stomaco resta, ma l'indignazione viene calmierata con un inconscio "volemose bene", anche esso ideologico, che tutto ridimensiona. Ormai fuori gioco Berlusconi, Bossi e Fini, quest' ultimo da sempre ritenuto il regista occulto del casino dell'epoca nelle stanze della questura di Genova e in quelle della scuola del "macello messicano", si ha già la pretesa di storicizzare la cronaca. Il risultato è comunque un film di pura angoscia, quasi un horror involontario, e forse la cosa è stata persino studiata a tavolino per coniugare il cinema di denuncia, che tante belle critiche attrae su di sé quando viene presentato agli addetti ai lavori, con le esigenze del botteghino che la Fandango non ha mai snobbato. 

Il risultato però, almeno per chi scrive, sembra questo: narrare fatti veri con un'ottica di fondo un bel po' ipocrita, fomentare ulteriormente l'odio giovanile contro le forze dell'ordine, come se ce ne fosse bisogno, prendersi una vendetta, non solo una rivincita, per tutti quegli anni, dall'11 settembre in poi, in cui il ribellismo anti-sistema fu accantonato anche da coloro che ne erano i massimi sponsor, visto che all'orizzonte si era nel frattempo affacciato un mostro ben più grande del capitalismo: il terrorismo islamico globalizzato. Certo del pacifismo idiota non ci siamo liberati neanche in quei frangenti, ma di costoro che urlavano "via via via la polizia" almeno sì. Adesso sono tornati pure loro, sulle ali delle sentenze della magistratura che non hanno potuto fare a meno di registrare dati e  verità inconfutabili. Magari mettendoci sopra il "carico da undici" ideologico, sempre ammiccante a chi  ha velleità di sovvertire il sistema tanto odiato. Velleità prontamente riprese da film come questo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:34