Le incisioni di Rembrandt

Si fa presto a dire incisioni. Vai alle Scuderie del Castello di Pavia e capisci che quelle di Rembrandt van Riijn sono altro. Chiudi gli occhi e quando li riapri l'intreccio che ti si presenta è di una spettacolare perfezione: acidi e inchiostri che si bevono la carta dando vita ad ombre di  inquietante vitalità. Sono 40 le incisioni in mostra scovate nella sterminata collezione del marchese Luigi Malaspina un patrizio che viaggiava molto e collezionava il meglio: da Durer a Mantegna, da Pollaiolo a Rembrandt. Un forziere di oltre 6000 pezzi, archiviato e troppo a lungo abbandonato.

Un tesoro, considerato che le sole opere del genio di Leida hanno sfiorato recentemente in asta quotazioni iperboliche fino al milione di euro. Perché la singolarità di Rembrandt consiste nel fatto che le sue incisioni risultano più celebri dei suoi dipinti. Come mai vi chiederete? Questione di tecnica. Rembrandt lavorava sulle lastre di rame come se manipolasse un semifreddo. E se nell'affrontare temi sacri si rivelava ostentatamente bigotto soddisfacendo il palato dei committenti, nelle sue sperimentazioni (vedi il "Faust") inseriva, simboli, enigmi, segreti ancora oggi oggetto di studio. Nessuno ha ancora scoperto chi fosse veramente Jan Six, amico legato all'artista.

Del resto la vita di Rembrandt è un torbido senza fine. Realtà romanzesca in grado di far impallidire la trama del più gettonato best seller. Vita tragica quella di Rembrandt: morti in successione i figli e la moglie Saskia il destino gli porta una serie di nuovi amori. Tutti complicati ed infelici. Sempre il fato (ma anche il suo tenore di vita) lo conducono alla bancarotta, inseguito dai creditori, fino alla più totale rovina. Eppure non era uno che se la passava male Rembrandt, se è vero che per l'incisione del "Cristo che guarisce gli infermi" fu pagata una cifra fuori dal comune. Tanto che l'opera prese il nome de "La stampa da cento fiorini". Non è chiaro se comprata dallo stesso Rembrandt, da un suo  prestanome o da uno sconosciuto amatore. Fatto sta che ora è in bella mostra al Castello di Pavia: stupenda, scenografica, delicatissima.

La curiosità della mostra è costituita certamente da una serie di ritratti: re o pezzente Rembrandt amava proporsi in vesti sempre diverse. Consapevole che"l'abito non fa il monaco" ma che gli affari vanno coltivati con adeguata promozione. E Rembrandt era un abile venditore ed un ancora più abile comunicatore: nei Paesi Bassi, nel Seicento, le sue opere andavano a ruba. Era stato lui a creare una vera moda: ben prima dell'arte pop o street e degli affichistes, la contemporaneità offerta come consumo. Ritagliando tuttavia nel suo inconscio, verosimilmente consapevole, incredibili labirinti di luce e tenebra.

A Pavia piazzatevi davanti all'"Uomo in meditazione": acquaforte e bulino. Un titanico coriandolo di carta fatto di penombra e oscurità dal quale emerge scontornato, indefinito un uomo  seduto. La luce di una candela appena schiarisce lo sfondo della stanza e il leggio dove è adagiato un libro. Ma chiarisce il volto dell'uomo che ti guarda dritto negli occhi. Non li vedi, appena li percepisci e tuttavia li senti. Più che un uomo uno spettro. Al calar del sole, quando la mostra è in chiusura con la luce fioca che blandisce la stanza per non offendere l'integrità di quei segni che datano 1640, quell'uomo mette i brividi. Pronto ad uscire dalla cornice. 

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:34