
L'espressione dice tutto: March Madness, la pazza febbre di
marzo che accompagna la fase conclusiva del campionato di basket
universitario americano e raggiunge il suo apice tra fine mese ed
inizio aprile, quando si disputano le Final Four per sancire la
regina. Contagia gli Stati Uniti ogni anno, in concomitanza con il
ritorno della primavera: l'appuntamento stavolta è a New Orleans e
il calendario prevede per sabato le semifinali tra Louisville -
Kentucky e Ohio State - Kansas, mentre lunedì 2 aprile c'è la
finalona.
Di carne al fuoco non ne manca, soprattutto nel derby tra
Louisville e Kentucky, alimentato dalla forte rivalità tra i
rispettivi coach: da una parte Rick Pitino (all'undicesima stagione
sulla panchina dei Cardinals), dall'altra John Calipari con i suoi
Wildcats. I due non si sopportano, la querelle è palese. Pitino,
per liquidare l'avversario, a ottobre ha sentenziato che a 59 anni
ha appreso da tempo come ignorare i gelosi, i maliziosi, gli
ignoranti e i paranoici: si stava riferendo a Calipari che aveva
praticamente cancellato Lousiville dalla cartina geografica
cestistica dello stato americano
Fa tutto parte di uno spettacolo unico nella sua specie. Perché se
è vero che è appena ripreso il campionato professionistico di
baseball, l'attenzione sportiva gravita su questi universitari che
si giocano il futuro nel giro di 48 ore. Così mentre i commentatori
scrivono che i quintetti che saranno schierati tra sabato e lunedì
possono benissimo sostituire i New Jersey Nets, la franchigia della
Nba più bistrattata degli ultimi tempi, gli animi si accendono e
l'America si mobilita.
Si calcola che in media sono quasi quattro i miliardi che vanno
persi tra salari e produttività durante la March Madness. Gli
impiegati delle società trascorrono il tempo concentrati più sulle
scommesse che sul lavoro oppure davanti al computer fingono di
battere sui tasti ed invece stanno cercando qualche diretta
streaming di un incontro. Si collegano ad internet per avere le
ultime informazioni: per una volta non è colpa dei social network
se l'attenzione crolla vertiginosamente.
Più le Final Four si avvicinano, più la domanda sorge spontanea:
quanto interesse susciteranno? Il dubbio si ingrossa man mano che
aumenta il numero delle squadre eliminate dall'ultima parte della
stagione agonistica: che interesse avrebbero i loro fan a seguire
con la stessa passione e lo stesso coinvolgimento le sorti delle
rivali? Niente, la temperatura della febbre non cala, non ci sono
antibiotici che tengano. Il concetto può essere difficile da
interpretare da questa parte dell'oceano, ma lo sport collegiale
negli USA è prima di tutto l'anticamera per quello
professionistico, la vetrina dei futuri talenti delle diverse
discipline, terreno di caccia di procuratori e sponsor. Ed è un
mondo attorno al quale ruotano intere comunità, non solo i campus
universitari: impianti pieni in ogni ordine di posto, eventi
collaterali perché il prodotto tira e va pubblicizzato come si
deve.
E tifosi che si spostano in massa. L'anno scorso Houston ha
ospitato le Final Four e in 70mila sono arrivati nella città
texana: con essi, i loro portafogli. C'è la crisi, l'economia non
si riprende, il debito pubblico aumenta, Washington perde la tripla
A per le agenzie di rating, ma gli analisti avevano calcolato spese
pari a 100 milioni di dollari, diretti nelle tasche del business
locale: una cifra molto vicina a quella generata dal Super Bowl (la
finale di football) del 2004.
Nel 2010 l'ombelico del mondo a spicchi universitario era stata
Indianapolis. Un economista della Ball State University, Michael
Hicks, aveva fatto i conti: almeno 50mila visitatori, una spesa a
testa di 215 dollari al giorno tra alloggio, cibo, bevande e
trasporti, il tutto moltiplicato per le due notti trascorse a
Indianapolis, più qualche extra ed ecco pronti 30 milioni di
dollari, un toccasana per la città alla quale non capita di
ospitare eventi simili, fatta eccezioni per le 500 miglia di
IndyCar.
Impatto economico, ma anche culturale. Sono stati pubblicati
diversi saggi sul rapporto tra lo sport universitario e l'American
Way of Life. Il football, prima di tutti. L'esplosione in
popolarità registrata tra la Prima e la Seconda guerra mondiale ha
avuto come sponsor anche il generale Douglas MacArthur, l'eroe
della guerra ai giapponesi nel Pacifico: patriottismo e giovani
americani che si facevano le ossa su un campo da gioco. Gli
accadimenti sociali poi sono entrati diretti nella vita delle
facoltà, con le tensioni razziali degli Anni '60 e in particolare
in atenei sportivamente accreditati come LSU (Louisiana State
University) e Alabama.
La NCAA(National Collegiate Athletic Association) ha i suoi
personaggi che hanno lasciato il segno, fatto la storia
nell'immaginario collettivo: era dai college che venivano
selezionati gli atleti che avrebbero rappresentato gli Stati Uniti
alle Olimpiadi contro i nemici sovietici sul parquet a colpi di
canestri (poi nel 1992 sbarcò il Dream Team di professionisti) o
sul ghiaccio a colpi di mazze da hockey. Mens sana in corpore sano:
studia, fai sport e onora la tua nazione.
A gennaio ha salutato Joe Paterno, il deus ex machina per 45 anni
della squadra di football di Penn State: se n'è andato il 22
gennaio, dopo aver da poco abbandonato l'incarico di coach travolto
da uno scandalo pedofilia che coinvolgeva un suo ex assistente. Gli
studenti, appresa la notizia delle dimissioni, presero di mira le
troupe televisive, accusate di aver gettato fango su Paterno.
Perché non si tratta di giocare solo una partita: c'è molto
altro.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:24