La crisi travolge anche il sogno dei Rangers

La crisi è cattiva, balorda, inesorabile. Spegne i sogni, brucia rosei pensieri, rendendo tutto abbastanza pessimista. Travolge, insomma, qualsiasi cosa come un mare forza nove a cui nessun argine può porre giusta difesa. E nel pieno di questa debacle economica, che sta "spaccando" il mondo intero, sta trovando la "morte", e purtroppo nessuno parlamento europeo potrà salvarlo, il club calcistico più antico di Scozia, uno dei primi di tutti i tempi: i Rangers di Glasgow, o meglio i Glasgow Rangers. Insomma, i Rangers. 

E l'ultimo ricordo, bello quanto beffardo, quasi da cancellare, è stato il derby vinto domenica scorsa all'Ibrox Park, per 3-2, contro l'odiato Celtic che invece continuerà a vincere in patria. Senza più gloria, però, poiché la Scottish League, più che un campionato di calcio professionistico, è un torneo amatoriale e neanche dei migliori, in cui il derby, tra i protestanti dei Rangers e i cattolici dei Celtic, è l'unica partita che conta, poiché travalica i "semplici" valori sportivi. Adesso i tifosi dei "Blues" perderanno la loro squadra, che di conseguenza perderà il suo nome, la sua storia, la sua identità. I Rangers, dal prossimo anno, ripartiranno dalla quarta serie e con un altro nome, un altro simbolo, il tutto scritto in un "nuovo" libro meno affascinante e senza quelle pagine ingiallite, invecchiate, che sanno di mito, di leggenda. 

Il club venne fondato nel 1872, quando in Italia il calcio era ancora utopia sportiva, dai fratelli Peter e Moses McNeil, da William McBeath e da Peter Campbell. Nel 1888, invece, si giocò il primo di quasi 400 derby cittadini contro il Celtic, dando origine al celebre "Old firm friends". Un termine coniato da  un quotidiano che, descrivendo l'incontro, scrisse che «i giocatori di entrambe le squadre andavano così d'accordo da far pensare si trattasse di amici di lunga e provata fede».  Due anni dopo i Teddy Bears (gli "Orsacchiotti", uno dei soprannomi dei Rangers) furono tra i fondatori della Lega scozzese, che vinsero l'anno successivo. Da allora la loro bacheca si aprì altre 114 volte per incastonare 54 titoli nazionali, 33 coppe di Scozia, 27 coppe di Lega e una Coppa delle Coppe.  Quest'ultima nel 1969: passò tristemente alla storia, e anche in questo caso lo sport passò in secondo piano. I "protestanti" batterono i russi della Dinamo Mosca per 3-2 al Camp Nou di Barcellona, in una finale tiratissima che vide, però, l'invasione di campo di circa 10mila scozzesi ubriachi a un minuto dalla fine dell'incontro. Invasione ripetuta al fischio finale, che impedì la cerimonia di premiazione e che diede vita ad accesi scontri non privi di brutalità con la polizia di Franco. L'invasione costò ai Rangers la squalifica internazionale per due stagioni, poi ridotte a una dall'Uefa, ma anche così la squadra, che aveva fallito per un punto la scalata al titolo nazionale, non poté difendere nella stagione successiva la Coppa vinta. 

La vittoria europea, comunque, giungeva poco meno di un anno e mezzo dopo il secondo grande disastro di Ibrox del 1971, forse il peggiore, e fu vissuta come l'uscita da un lungo periodo buio: il 12 gennaio 1971 il Celtic, in uno dei tanti derby di campionato (in Scozia si giocano due andate e due ritorni) segnò il goal dell'1-0 sui Rangers all'89', e molti tifosi casalinghi lasciarono delusi lo stadio. Negli ultimi secondi di recupero, però, i Rangers pareggiarono. Molti tifosi in uscita dalla scalinata n°13 si fermarono e questo causò un improvviso assembramento, che si ripercosse a catena fino sugli spalti. Numerose persone furono schiacciate dalla folla: tra esse, 66 persero la vita e più di 200 rimasero ferite. I rapporti di polizia riferirono che in certi punti della scalinata vi furono cataste di corpi umani alte quasi due metri. Un'ipotesi, poi smentita ufficialmente ma sopravvissuta a lungo come leggenda, vuole che il disastro fosse stato causato dai tifosi che tornarono indietro quando sentirono il boato dei supporter dei Rangers al momento del pareggio. 

Un'altra tappa importante dei blues di Caledonia fu quella a cavallo tra il 1986 e il 1991 che segnò il ritorno, di Graeme Souness, con il ruolo di giocatore-allenatore, reduce da un pessimo biennio in Italia con la Sampdoria. Souness decise di cancellare la regola non scritta, e forse per questo ancora più sentita e granitica, di non ingaggiare calciatori cattolici, provocando tensioni e critiche in entrambe le tifoserie di Glasgow. Anche questi attriti, però, con il tempo si sono sopiti, anche grazie al successivo arrivo di calciatori provenienti da Paesi di tradizione cattolica dell'Europa meridionale, Spagna e Italia in particolar modo. Proprio un italiano, il difensore Lorenzo Amoruso, fu il primo capitano cattolico dei Rangers. Amoruso nel 2003 lasciò Ibrox Park portato in trionfo dai compagni e dal suono delle cornamuse, dopo aver realizzato un goal nella finale di Coppa di Scozia contro il Dundee. E tanti sono stati i giocatori famosi che hanno vestito con orgoglio una maglia che pesa come l'armatura di William Wallace, l'eroe nazionale scozzese: dai fratelli De Boer a Mark Hateley, da Paul Gascoigne al mitico Jock Wallace jr, da Gennaro Gattuso a Sergio Porrini, da Graeme Souness, appunto, a Moses McNeil, il primo giocatore dei Rangers a vestire la maglia della nazionale scozzese. Fino ad Ally McCoist, il bomber più prolifico della storia dei Teddy Bears, oggi allenatore  senza soldi di un cuore che sta battendo gli ultimi colpi ma che tra pochi giorni si fermerà per colpa di quei 115 milioni di debiti che stanno risucchiando all'inferno il club più glorioso del calcio scozzese. Da lì neanche il tifoso e socio Sean Connery, in versione James Bond, potrà tirarlo fuori. Prima del derby della scorsa domenica, all'ingresso del monumentale Ibrox, anch'esso, forse, al canto del cigno, i tifosi e i calciatori dei Rangers hanno raccolto fondi, in una corsa contro il tempo, per la libertà e per l'identità, proprio come avrebbe fatto Wallace. Fondi che però non serviranno a salvare questa pagina storica dalle fiamme che la bruceranno per sempre. Ma almeno questi giovani "figli" di Peter e Moses McNeil, di William McBeath e di Peter Campbell potranno urlare, come l'eroe William Wallace, che «chi combatte può morire, chi fugge resta vivo, almeno per un po'. Agonizzanti in un letto, fra molti anni da adesso, siete sicuri che non sognerete di barattare tutti i giorni che avrete vissuto a partire da oggi, per avere un'occasione, solo un'altra occasione, di tornare qui sul campo, a urlare ai nostri nemici che possono toglierci la vita, ma non ci toglieranno mai la libertà». E nemmeno la storia.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:16