Tintoretto “Un uomo triste e folle”

Una (simpatica?) canaglia. Aggressivo e spregiudicato: disposto a tutto pur di dipingere. Capace con disinvoltura di scavalcare gerarchie e precedenze. Capace di manipolare un concorso o di farlo annullare. Disposto a lavorare gratis per ottenere i suoi obiettivi. Disposto al plagio.

Un uomo sorprendentemente "attuale". Che dopo la decennale sofferenza degli esordi aveva capito che i concorsi non si vincono con il progetto migliore, ma con quello meglio appoggiato. Disponibile a tutto, Jacopo Robusti detto il Tintoretto, per arrivare alla ricchezza. Anche ad avvalorare i "suoi falsi".
Ancora oggi non è chiaro quanti quadri abbia "veramente" dipinto. I 468 a lui attribuiti rappresentano una enormità difficilmente archiviabile. Più ragionevolmente sembra attendibile la cifra di 260 tele per altrettante commissioni. Pur conteggiate per difetto, sempre una enormità. Frenesia che gli consentì, tuttavia, di travolgere la concorrenza, di contrarre un ottimo matrimonio con una borghese, di comperarsi una casa con vista sul Canale.
Ma soprattutto di raggiungere la fama, mettendo i suoi personaggi, i suoi colori, la sua firma in ogni chiesa, palazzo, soffitto, facciata, tribunale, rione di Venezia.

"Un uomo triste e folle" secondo quanto ne scrive Pietro Aretino, la più celebre lenza in circolazione in quella stagione. E che con Tintoretto tenne - forse per questione di ducati - pessimi rapporti. Un uomo esagerato Jacopo Robusti: in fuga probabilmente da se stesso.

L'antipasto della mostra "Tintoretto" alle Scuderie del Quirinale a Roma curata da Vittorio Sgarbi, nell'allestimento di Massimo De Lucchi è questo. Mostra imponente ed importante. Dove il percorso dell'artista veneziano viene analizzato a cominciare dal "Miracolo dello schiavo" nel quale Robusti coniuga la scuola tosco-romana con quella veneziana.
Una tela enorme ( 4 metri per 5 ) dove convivono drammaticità e teatralità. L'immancabile "Susanna e i vecchioni" evoca Tiziano con la luce che letteralmente flirta con le forme della fanciulla messe in risalto da un paesaggio favolistico.

Nato a Venezia nel 1518, Jacopo è figlio di un tintore. Da qui il successivo soprannome. Considerato che per stoffe e pigmenti non è particolarmente versato, il padre stufo di vedersi le pareti della bottega scarabocchiate dalle "visioni" del figlio, decide di mandarlo a scuola da Tiziano. Nella bottega del grande veglio rimane qualche tempo cacciato - pare - per scarsa attitudine al disegno.
Ma il talento non gli manca se è vero che a soli 18 anni viene ammesso alla Fraglia dei pittori. Sgomita, si mette in luce, diventa una leggenda. E alla morte di Tiziano, Venezia è ai suoi piedi: Tintoretto è - a quel punto - l'indiscusso numero uno. Dai modi espressivi spicci. In una produzione segnata da un anticonformismo plastico e illusionistico.
La gloria dopo molti anni di precarietà. Anni trascorsi persino a verniciare mobili. E ad offrire i suoi dipinti nelle calli e in Piazza San Marco: snobbato dai passanti, vessato dai concorrenti che si erano accaparrati il monopolio del mercato.

Un seduttore che ottiene commissioni dalla Serenissima, dalla Chiesa, dai patrizi della Repubblica, da coronati come Rodolfo II e Filippo II di Spagna, dai Gonzaga, dai Fugger, dalle Confraternite: a cominciare da quella di San Rocco, della quale diviene membro. E qui che confeziona nel 1564 il suo capolavoro strategico.
La Scuola ha infatti bandito un concorso per la decorazione del suo albergo. Ma a differenza di Paolo Veronese e di Andrea Schiavone, Tintoretto non presenta alcun cartone preparatorio raffigurante il Santo. Complici i frati convoca i giudici direttamente nella sala deputata ad ospitare la tela e li invita a "Guardare in alto".
Incastonato nel soffitto il quadro è lì, bello e pronto. Ovviamente i colleghi gabbati protestano. Senza risultato: membro della confraternita, Jacopo ottiene l'intera commessa, portata a termine nei successivi 18 anni. Un venditore la cui vitalità viene esaltata da comportamenti camaleontici. Nessun rimorso, nessuna difficoltà nel "cambiare idea".
Più di Machiavelli, oltre Guicciardini. Mentre un Paolo Veronese passa complicati pomeriggi nelle stanze dell'Inquisizione, Robusti "svolta" dal Concilio di Trento zampettando su Riforma e Controriforma, offrendo con un perfetto carpiato le "Storie della vita di Cristo".

Propongono "San Giorgio ed il drago", le Scuderie del Quirinale. Assieme a "Santa Maria egiziaca" e a "Santa Maria leggente". Propongono il "Trafugamento del corpo di San Marco", dove evidente risulta l'influenza - scultorea e architettonica - di Jacopo Sansovino. E molto altro.

Copiava Tintoretto? Copiava. Come si evince nell' "Ultima Cena" (1574-5) proveniente dalla Chiesa di San Paolo e in quella più tarda (1584) di San Trovaso attinte senza rossore dalle incisioni del trattato di Serlio che faceva parte della sua biblioteca.

E tuttavia, copiava, Tintoretto, stemperando all'interno del suo smisurato talento. Modellando le figure in cera o in creta. Usando maquette da scena teatrale. Mettendo in posa - in quello che sarà definito il suo "realismo plastico" - modelli maschili e femminili. Vestendoli non per coprirli ma per accedere alla "forma" che nel suo pensiero definiva la perfezione.
Dipingeva direttamente sulla tela preferendo una mescola scura, segno caratteristico dei suoi quadri. Considerava il bianco e il nero il nero i colori più belli perché "uno dava forza alle figure definendo le ombre, l'altro rilievo".

Un manipolatore che nella già citata "Susanna" strizza l'occhio al maestro Tiziano attraverso l'artifizio di uno specchio. Un genio eccentrico i cui ghiribizzi furono bollati anche da Vasari, sconcertato da un artista che dipingeva"fuori dall'uso degli altri pittori".

Al netto della sua autentica (o falsificata) bulimia produttiva le opere tarde della sua scuola risultano di una qualità nettamente inferiore, nonostante i ripetuti interventi di uno dei suoi otto figli. Ma in articulo mortis (1594) il vecchio drago si produsse nella zampata che definisce - quasi un testamento - la sua visione poetica: quella "Ultima Cena" (1592-94) presente in San Giorgio Maggiore non concessa alla mostra capitolina.
Nascosto in quell'opera Tintoretto, dà infine la sensazione di avere arrestato la sua corsa.

E di essersi finalmente sentito in salvo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:10