Dall’esimente delle culture locali l’accelerazione verso i femminicidi

All’entrata in vigore della Costituzione, l’articolo 29 sancì l’“eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, ma la sua effettiva attuazione non fu affatto immediata per ciò che concerne la donna. Agli albori dell’Italia repubblicana, per esempio, era stato declinato nelle aule giudiziarie il principio della vis grata puellae. Fino al 1956 era consentito all’uomo di malmenare la moglie, nell’altisonante sublimazione giuridica del cosiddetto Jus corrigendi. Tale “diritto” si era protratto secolarmente e se ne trovano remote tracce già in alcuni processi risalenti al 1700, allorché l’unico limite alla violenza fisica era quello di non causare danni permanenti o la morte alla donna. Nel 1968 fu riconosciuta l’incostituzionalità dell’articolo 559 del codice penale, il quale puniva l’adulterio solo se l’avesse commesso la donna. Nel 1975 con la riforma del Diritto di famiglia venne sottratto all’uomo il potere di decidere su richiesta dei medici, nel caso di un travaglio pericoloso per la madre e per il nascituro, quale dei due dovesse essere salvato.

Nel sin troppo lungo percorso verso l’attuazione del principio costituzionale della parità si arriva al 1981, allorché con la legge numero 442 venne cancellato il “delitto d’onore”, prevalentemente rilevato in Sicilia, giusta il quale era prevista una pena ridotta con l’attenuante in favore di chi uccideva il coniuge, la figlia o la sorella (e anche l’amante delle stesse), nella circostanza dello “stato d’ira determinato dall’offesa dell’onore”, correlata alla scoperta della “illegittima relazione carnale”.

Del pari, venne anche abrogato il cosiddetto “matrimonio riparatore”, che estingueva il reato della violenza carnale nel caso che chi avesse abusato di una minorenne, l’avesse in seguito sposata. Successivamente fu varata la legge numero 66 del 1996, che introdusse una nuova disciplina in materia di violenza sessuale, per cui lo stupro cessò di essere rubricato come reato contro la morale pubblica, secondo la definizione fornita dal codice Rocco nel periodo fascista, per divenire un “reato contro la persona”.

Oggi c’è un criminale “salto di qualità”, poiché dalla violenza domestica, già in passato accreditata come maritale jus corrigendi, si è passati al “femminicidio” – neologismo in precedenza ignoto alla lingua italiana – che riempie le cronache dei giornali, a segno di una società moralmente e culturalmente in pauroso arretramento. Non saranno certo delle pene edittali altisonanti a fermare questo come altri fenomeni di patologia sociale, bensì la certezza di sanzioni certe nell’applicazione.

Una pericolosa retromarcia è stata innestata da una eclettica argomentazione, che collide con una consolidata giurisprudenza: a Brescia la locale Procura ha chiesto l’archiviazione per un cittadino del Bangladesh, accusato di aver maltrattato la moglie. Nel fatto: una giovane mamma di due figlie, cittadina italiana di nazionalità bengalese, a suo tempo costretta in patria a un matrimonio combinato, ha denunziato l’ex consorte per maltrattamenti fisici e psicologici. Costretta a lasciare gli studi e a restare chiusa in casa, come riportato lo scorso 11 settembre dal Giornale di Brescia, la donna aveva trovato il coraggio di denunciare dopo anni di “urla e botte”, passati sotto la “costante minaccia di essere riportata in Bangladesh”.

Ma ecco il paradossale colpo di scena giudiziario: “I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”.

Questa è l’allucinante motivazione con cui la Procura di Brescia ha chiesto l’archiviazione, dato che i maltrattamenti rientrerebbero nel campo dei reati “culturalmente orientati”: condotte sanzionate dall’ordinamento, ma tollerate dalle leggi o dalle tradizioni del Paese di provenienza. Il Gip, viceversa, aveva ordinato l’imputazione coatta, dal momento che “sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito”.

L’attuale “eclettica” interpretazione della Procura bresciana collide con la precedente giurisprudenza del locale Tribunale, che recentemente aveva condannato un egiziano violento nei confronti della figlia, con ben altra argomentazione: “I soggetti provenienti da uno Stato estero – scrisse il presidente Roberto Spanò – devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità”.

Ci sia consentito ricordare, a margine di questa vicenda, un significante aneddoto riferito ad un altro contesto storico-politico, ma illuminante contro aberranti indulgenze riferite a costumanze locali: “Allorché lord Mountbatten, Viceré delle Indie nel 1947, si sentì dire da un dignitario locale che andava rispettata la prassi di ardere sul rogo la vedova del defunto marito, rispose seraficamente noi rispetteremo le vostre  consuetudini, ma voi rispetterete le nostre: noi impiccheremo l’esecutore del rogo”.

In Italia, come in ogni Paese civile, la legge penale non ammette alcun tipo di eccezioni culturalmente orientate. Diversamente, dai cascami di “cultura” maschilista dura a morire, si giunge al criminale “salto di qualità” del “femminicidio”, macabro neologismo venuto a segnare le pagine della cronaca nera con una inquietante e crescente frequenza.

Ogni 25 novembre si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne ed il femminicidio, data scelta nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in memoria delle sorelle Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal, brutalmente assassinate per ordine del dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo il 25 novembre 1960.

Ai nostri giorni non saranno certo delle altisonanti pene edittali a fermare questo come altri fenomeni di grave patologia sociale, bensì l’ineluttabilità di quelle sanzioni miti ma al contempo certe nel loro momento applicativo che aveva lucidamente postulato Cesare Beccaria, oggi evidentemente dimenticato.

Aggiornato il 14 settembre 2023 alle ore 18:57