Un ennesimo garante: quello dell’etica

Come è noto esiste già da qualche anno – composta da 23 articoli – la cosiddetta Carta di Avviso pubblico, cioè un codice etico che indica concretamente come un buon amministratore dovrebbe indirizzare la sua condotta a principi di trasparenza, imparzialità, disciplina e onore già congruamente ed esaustivamente contemplati dagli articoli 54 e 97 della Costituzione. L’imparzialità in particolare – giova rammentarlo – è il Dna della Pubblica amministrazione, per cui è già apparsa non indispensabile la sua rinnovata evocazione nel Decreto legislativo del 30 marzo 2001. Senza entrare nel dettaglio delle condotte censurate nella richiamata Carta di Avviso (conflitto di interessi, clientelismo, alle pressioni indebite), appare opportuna una riflessione a carattere più generale circa la necessità e l’opportunità di ricorrere alla Carta medesima, cui – per quanto è dato sapere – hanno aderito solo 50 Comuni su più di 8mila. Un osservatore superficiale avrebbe buon gioco a trarne la conseguenza che la stragrande maggioranza dei pubblici amministratori è formata da soggetti refrattari a qualsivoglia forma di autodisciplina morale, e che pertanto men che mai si doterebbe di un “garante” del puntuale rispetto di questa sorta di singolare Vangelo laico.

La nostra democrazia complessivamente considerata, risulta oggi afflitta da varie “anomalie” – se non le si vogliono considerare vere e proprie piaghe – potenzialmente mortali per un organismo già fortemente debilitato nella sua intrinseca essenza di “potere derivante dal popolo”. Una di queste è data proprio dal potere normativo esercitato dalle varie “autorità” o “garanti”, intrinsecamente prive di qualsivoglia legittimazione popolare, le cui delibere – mancando la forma di legge – sfuggono al controllo di costituzionalità. Per converso, nel caso di adozione da parte loro di provvedimenti sanzionatori, mancano le garanzie di difesa previste dalla Costituzione nell’esercizio della funzione giudiziaria. Una riflessione più approfondita che trascenda dunque fugaci emozioni da bar dello sport, ci conduce non certo a contestare il merito del sacrosanto principio di un saldo ancoraggio della politica all’etica, bensì a contestare la cornice di riferimento formale, di cui abbisognerebbero detti principi per assicurarne la puntuale osservanza.

L’ancoraggio della politica e della legislazione all’etica, risale agli albori della civiltà – in Occidente come in Oriente – al cui riguardo ricordiamo che Platone, Aristotele, Cicerone e Confucio, si posero il problema della ricerca di valori morali oggettivi, asserendo che compito del legislatore doveva essere quello di tradurli in dei precetti concreti nella realtà storica, caratterizzati più dalla persuasività che dalla minaccia della sanzione. La cultura avrebbe costituito il miglior mezzo per comprendere che cosa fosse la giustizia sostanziale o etica che dir si voglia e, di conseguenza, per poter reggere degnamente la Città. Ciò significava fare politica nel significato etimologico, vale a dire agire al servizio e nell’interesse della Polis, e non servirsi della politica medesima come mezzo per conseguire interessi personali. Kant evidenziò in seguito che fronte del diritto, che riguarda le azioni esteriori, e cioè comportamenti volti a perseguire delle finalità contingenti, si pone con carattere di priorità l’etica, che riguarda le azioni interiori. Quest’ultima rivolge all’uomo l’imperativo categorico di fare il bene per il bene, di compiere il dovere per il dovere, sintetizzabile nel celeberrimo motto: “Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me”.

Tutto ciò premesso, il problema che oggi sfugge ai fautori del nuovo Garante, non è quello di nuove norme evocative di profili comportamentali già congruamente scolpiti nella Costituzione, la quale è al riguardo intrinsecamente dotata di autorità precettiva, bensì di come combattere il degrado morale che talora è dato riscontrare nell’ esercizio di pubbliche funzioni. Si sente dire con qualunquismo da barberia che “la politica è una cosa sporca”, il che sottintende il dovere morale per le persone pulite che vogliano mantenersi tali, di astenersi da ogni imbrattamento con essa. Corollario necessario a tale premessa, è che bisognerebbe avere in partenza un’attitudine ai loschi affari, alla corruttela, per potersi dedicare all’agone politico, che in tal modo viene ad essere totalmente snaturato dal suo stesso etimo, che è quello – ricordato – di servizio da rendere alla “Polis”, cioè alla causa del bene comune. Una politica disancorata dall’etica tradisce in realtà la sua ragion d’essere, in quanto vuota di contenuti socialmente apprezzabili, per cui la frode che ne deriva al contratto sociale idealmente stipulato fra rappresentanti e rappresentati, comporta che questi ultimi revochino il mandato elettorale non adempiuto con onore.

Tra le tante voci autorevoli in tema, ricordiamo quella del giurista Stefano Rodotà, il quale scrisse che per aversi una sana politica, non bastava il non aver violato il codice penale, dato che chi ricopre responsabilità pubbliche – vieppiù nel caso di parlamentari – non deve venir meno a comportamenti ispirati a quei valori di “disciplina ed onore”, che sono testualmente evocati dalla Costituzione. L’uomo morale, nella vita familiare come in quella sociale è un tutt’uno inscindibile nella sua persona. Innanzi a bassezze astutamente giustificate da necessità storiche o da realismo politico che dir si voglia, non bisogna mai abdicare al ruolo della propria coscienza e della legge del dovere. Il vincolo della politica, come del diritto, è quello del rispetto della coscienza razionale insita in ogni individuo, alla luce della quale egli può discernere tra il bene ed il male, senza che nessuno possa sostituirsi a lui, e men che mai l’evocato garante, sorta di “Guardiano della coscienza”. Riteniamo che crisi della politica odierna sia prevalentemente imputabile alla caduta libera della cultura, intesa come istruzione educante al discernimento ed a conseguenti scelte informate e mature, al fine di una rappresentanza che a partire dal livello locale sino ad arrivare al Parlamento nazionale, sia affidabile per competenza e per onestà. Non crediamo necessario né un nuovo codice, memori della saggezza dei giureconsulti che affermavano “plurimae leges, maxima iniuria”, e men che mai dell’ennesimo Garante, che al di fuori dell’altisonante parola, avrebbe la pretesa di sortire effetti più incisivi di quelli conseguiti in oltre 70 anni dalla nostra suprema Carta costituzionale. La moltiplicazione dei garanti è il certificato di morte di una democrazia comatosa.

Aggiornato il 17 ottobre 2022 alle ore 10:44