Dicono: “introdurre in Italia la separazione delle carriere provocherebbe ineluttabilmente anche in Italia una subordinazione dei pubblici ministeri al potere esecutivo, come avviene in altri Paesi europei. E ciò sarebbe un disastro”. Dicono anche: “l’ordinamento giudiziario italiano è un modello che altri Paesi vorrebbero imitare. Non c’è quindi quasi nulla da cambiare”. Sono questi due dei “tormentoni” dell’ideologia conservatrice del “Partito dei pm”; un’ideologia che diffonde ragionamenti di carattere ideale e dottrinario del tutto astratti dalla realtà fattuale, dimenticando allegramente i fatti che mostrano che quel presunto modello italiano produce effetti perversi che sono ormai sotto gli occhi di tutti e proprio quel disastro che si dice di voler evitare. Se i fatti contraddicono l’ideologia e la dottrina – secondo i pm-ideologi – “tanto peggio per i fatti”. Come al solito. Affermano che gli ordinamenti giudiziari negli altri Paesi europei mostrerebbero l’equazione, e anzi una sorta di connessione causale, tra separazione delle carriere e dipendenza del pm dall’esecutivo. E presentano poi quest’ultima come uno spauracchio: come l’anticamera di un inferno di malagiustizia (che in realtà non esiste certo in Paesi dove come la Germania, la Francia e la Spagna il pm devono rispondere al ministro della Giustizia!). Ma la loro ideologia fa acqua. In primo luogo nulla impedisce che i pm, pur separati nella carriera dai giudici restino parte della giurisdizione conservando autonomia e indipendenza e senza diventare dipendenti dal potere esecutivo. Lo dimostra, tra l’altro, il caso del Portogallo, dove vige la separazione delle carriere e, dove, tuttavia, il pm non dipende affatto dall’esecutivo.
Inoltre l’ideologia dei pm nasconde un fatto: oggi in Italia nessuno vuole istituire la dipendenza del pm dal ministro della Giustizia (esclusa anche dalla Costituzione). In realtà chi propone oggi la separazione delle carriere tra pm e giudici, (come fa la proposta di legge dell’Unione camere penali italiane in discussione al Parlamento), non intende affatto privare i pm delle caratteristiche di indipendenza proprie della giurisdizione. Continuare ad agitare lo “spettro” della dipendenza del pm dal potere esecutivo, quando nessuno la propone e quando essa non è affatto nelle reali possibilità, è un segno del carattere ideologico e strumentale delle posizioni del Partito dei pm. Semmai è la loro ideologia che suscita perplessità. In quella ideologia c’è posto solo per l’indipendenza del pm, come se essa fosse tutto, come se da essa discendesse ogni bene e come se tutto il resto fosse nulla. Da quella indipendenza, che sarebbe garantita dall’unità di carriera tra pm e giudici, discenderebbe (sulla carta) “l’arricchimento culturale reciproco dei magistrati requirenti e giudicanti” italiani che risulterebbero così “i più colti del mondo”. Che meraviglia! Dall’indipendenza dei pm deriverebbe anche l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la perfetta realizzazione della Giustizia in terra italica. Grazie all’unità delle carriere l’ordinamento giudiziario italiano diventerebbe magicamente “un modello” e l’Italia sarebbe un paradiso giudiziario che gli altri Paesi europei cercherebbero di imitare. Un vero film fantastico quello dei pm ideologi.
La realtà effettuale è, purtroppo, molto diversa dalle prefigurazioni astratte e cartacee degli ideologi del partito dei pm. Non basta dire che sulla carta il sistema giudiziario italiano è un paradiso per nascondere l’inferno reale che esso produce nei fatti. È ormai chiaro a tutti che il sistema giudiziario italiano, oltre alle patologie carrieristiche e all’uso politico del potere giudiziario, emersi nel caso Palamara produce tra l’altro un’inflazione di indagini e di carcerazioni preventive, una patologica lunghezza dei processi civili e penali, una prevalenza di processi penali indiziari (senza vere prove “al di là di ogni ragionevole dubbio” complice il persistente principio del “libero convincimento del giudice”), sentenze contraddittorie nei vari stadi del processo. Basti citare il fatto che circa il 65 per cento delle sentenze di primo grado vengono riformate o in Appello o in Cassazione o in entrambi. Questo dato è un indice degli errori giudiziari in un senso o nell’altro. Quel dato è anche indice di una estrema incertezza del diritto in Italia. Un’altra misura degli errori giudiziari è data dai frequenti e costosi casi di ingiusta detenzione nonché dalle condanne dell’Italia da parte delle corti europee per violazioni del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Al superamento di alcune di queste patologie del sistema giudiziario in Italia contribuirebbe certamente un regime di separazione delle carriere tra pm e giudici. Riteniamo che sia possibile (oltre che urgente) una riforma che preveda la separazione delle carriere e realizzi finalmente la “terzietà” del giudice prevista dall’articolo 111 della Costituzione conservando la piena autonomia ed indipendenza ai pubblici ministeri, i quali potrebbero benissimo organizzarsi in un proprio Csm. Ed è proprio questo l’obbiettivo della proposta di legge costituzionale promossa dall’Unione delle Camere penali italiane, in discussione attualmente alla Camera. Dall’esame dei vari ordinamenti giudiziari occidentali emerge una marcata anomalia italiana nel mondo occidentale. L’Italia è l’unico Paese in cui il pubblico ministero è dotato di poteri e garanzie non presenti contemporaneamente e nella stessa ampiezza nei procuratori di nessun Paese occidentale. Il pm in Italia ha il monopolio e gode di un’ampia discrezionalità politica di fatto (che si cela dietro il feticcio formale, la finzione, della obbligatorietà) dell’azione penale; dispone ampiamente della direzione della polizia giudiziaria, e gode dell’autonomia, indipendenza e inamovibilità che altri ordinamenti riservano solo ai giudici. Inoltre per le imperfezioni del processo accusatorio in Italia, di fatto la formazione della prova, avviene non nel dibattimento attraverso il contraddittorio – come prevede la Costituzione – ma nella fase delle indagini preliminari, per cui il pm diventa il vero Deus ex machina del processo. Le indagini preliminari si prolungano poi spesso indefinitamente, dando luogo a lunghissime misure cautelari e a prescrizioni spesso almeno potenzialmente pilotate dagli stessi pm. La metà circa delle prescrizioni avviene infatti nella fase delle indagini preliminari, il che è fonte potenziale di un altro potere discrezionale del pm.
A ciò si aggiunga una particolare irresponsabilità di fatto dei pm che in teoria sono passibili di provvedimenti disciplinari da parte del Csm, ma che, di fatto, se appartengono ad una corrente di maggioranza nell’Anm e nel Csm, anche in casi di gravi mancanze, finiscono con il ricevere come sanzione – nei casi più gravi – solo il buffetto di un semplice “ammonimento” o di una semplice “censura”. In nome poi di una concezione assoluta e radicale dei diritti individuali di libertà di espressione e di associazione al magistrato italiano, e in particolare al pm italiano viene, ormai riconosciuto anche il diritto di “fare politica” mentre esercita i poteri dell’accusa al riparo dei privilegi della giurisdizione. Il pm ha ormai acquisito il diritto di presentarsi, senza un periodo di decantazione, alle elezioni regionali o nazionali, inducendo al legittimo sospetto di un uso politico della sua funzione accusatoria e giurisdizionale (oltre che del potere di fatto di archiviazione), restando magistrato e spesso per giunta nella stessa circoscrizione dove ha svolto le funzioni di magistrato, e dove si riserva persino il diritto di tornare a svolgere quelle funzioni una volta terminato il suo mandato.
Notiamo che non può sorprendere il fatto che molti pm europei (in specie francesi) invidino i privilegi e le guarentigie del pm italiano! Chi non invidierebbe un funzionario pubblico che, grazie ad un semplice concorso, diventa un piccolo sovrano superiorem non recognoscens? In quale altro ordinamento ciò verrebbe ritenuto “normale” se non in Italia? Secondo l’ideologia del partito dei pm, il cosiddetto “modello italiano” sarebbe poi addirittura, proprio grazie all’unità delle carriere, l’unico che garantirebbe una premurosa quanto fantomatica “cura” di sapore garantista da parte di pm, verso le ragioni degli indagati e degli imputati. La sua appartenenza alla “cultura della giurisdizione” garantirebbe che il pm usi dei suoi poteri di polizia giudiziaria nella fase dell’indagini per cercare indizi e prove a favore dell’indagato. Il che è vero solo in astratto e sulla carta, ma risulta del tutto falso nella realtà. Questo film mentale viene diffuso da vari procuratori sulla base di ragionamenti astratti e dottrinali a prescindere dai fatti reali: “la cultura della giurisdizione” comune a procuratori e giudici avrebbe questo effetto taumaturgico, come se si trattasse di una pozione magica. La realtà – come tutti sanno – è molto diversa. Di solito si assiste a procuratori che non solo non cercano quasi mai (le eccezioni ci sono, ma restano eccezioni) attivamente le prove a discarico degli indagati, ma tendono addirittura a nasconderle (e, in qualche caso persino a creare indizi e prove a carico). Altro che pm parte della “cultura della giurisdizione”! Altro che modello italiano! A memoria d’uomo si contano pochissimi casi e pochissimi pm che spingono il loro scrupolo di magistrati titolari della giurisdizione (alla stregua dei giudici) fino a quel doveroso compito garantista.
La realtà italiana purtroppo mostra un costume ed una pratica reale assolutamente contraria. Ma ecco, sommariamente, la situazione nei Paesi occidentali. Nei Paesi anglosassoni la funzione esercitata dai pubblici ministeri è, per sua natura ed organizzazione, basata su un principio di netta separazione tra la magistratura giudicante e la magistratura inquirente, ed è tale da escludere l’idea stessa di una comune organizzazione di carriera, ma anche di comune reclutamento e formazione. I procuratori provengono spesso dall’avvocatura e sono specie negli Usa fortemente responsabilizzati rispetto all’efficienza ed alla correttezza del loro operato. In Gran Bretagna, anche dopo l’istituzione della figura dell’Attorney general (avvocato generale) nel 1985, le indagini penali vengono svolte principalmente da Scotland Yard. Anche nei Paesi dell’Europa continentale la regola è la separazione almeno di fatto (come in Francia) delle carriere e delle funzioni, se non anche di diritto (come in Germania e Spagna). È vero anche che quasi dovunque vi sia anche una connessione tra pubblico ministero e potere esecutivo. Tuttavia, esiste nella maggior parte di questi Paesi la figura del giudice istruttore indipendente.
Così è in Francia (dove le carriere sono in linea di principio unificate, ma separate di fatto) e Spagna (dove le carriere sono separate sia in linea di principio e sia di fatto) ove il ruolo investigativo del pubblico ministero italiano è esercitato (talvolta in polemica con i pubblici ministeri e spesso a favore degli indagati) dal giudice istruttore, figura soppressa nel sistema italiano dove è stata sostituita dal Gip che, però, è privo dei poteri investigativi ed è strutturalmente più debole del pm del quale subisce l’iniziativa se non anche l’influenza. Il giudice istruttore è un organo investigativo totalmente indipendente dall’esecutivo che rimedia ed equilibra la dipendenza del pm dall’esecutivo e il suo ruolo di parte d’accusa nel processo e ne controlla le possibili esondazioni di carattere giustizialista e di protagonismo personale, che invece nel cosiddetto modello italiano, si sono rilevate frequenti e patologiche. Quindi nel panorama occidentale fa eccezione l’Italia perché non c’è né la separazione delle carriere né la dipendenza del pm dall’esecutivo. Da un altro lato fa eccezione, per ragioni opposte, il Portogallo, dove c’è la separazione delle carriere, ma non c’è la dipendenza del pm dall’esecutivo.
La particolarità del Portogallo
La situazione portoghese è particolarmente interessante perché dimostra che la separazione delle carriere può convivere con l’indipendenza del pm dal potere esecutivo. In Portogallo, infatti, vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza che questi ultimi siano sottoposti al potere esecutivo. A questa obiezione dei fatti gli ideologi della magistratura associata italiana, in particolare i pm italiani, rispondono denunciando il fatto che in Portogallo vi sarebbe stato nel tempo un affievolimento della cultura giurisdizionale dei “fiscal” (i pm portoghesi). La separazione delle carriere, congiunta con l’indipendenza dall’esecutivo del fiscal, avrebbe prodotto una tendenza giustizialista a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia. Insomma il fiscal sarebbe diventato un “superpoliziotto” particolarmente repressivo e giustizialista. Non diversamente da quello è avvenuto in Italia con i pm del caso Tortora, dell’operazione Mani pulite ed in successive indagini coinvolgenti uomini politici e semplici cittadini. Tutte queste argomentazioni relative al Portogallo inducono gli ideologi della magistratura associata italiana ad opporsi comunque alla separazione delle carriere in Italia in nome di una retorica di un pm slegato dalla dipendenza ad ogni altro potere, ma legato ad una “cultura della giurisdizione”, che in Italia esiste solo, purtroppo, solo sulla carta e nelle prefigurazioni ideali, ma non nella realtà.
In conclusione, è evidente che si possa giungere in Italia ad un regime di separazione tra magistratura requirente e giudicante con pieno rispetto dell’indipendenza dei magistrati requirenti, che possono benissimo dotarsi di una forma di autogoverno propria, un proprio Csm. Il problema vero è di garantire la terzietà del giudice, prescritta dall’art. 111 della Costituzione, che elimini ogni pericolo derivante non solo dalla contiguità, ma in Italia anche dalla enorme influenza dei pm e del loro “partito” (praticamente egemone nell’Anm e nel Csm) sui magistrati giudicanti. Nulla impedisce di realizzare, dunque, in Italia una riforma nella struttura dell’ordinamento giudiziario, impedendo – una volta per tutte – ogni devianza verso forme di giustizia politica e quelle derive giustizialiste che hanno segnato le attività dei pm negli ultimi decenni in Italia. Bisogna insomma operare costruttivamente per cancellare questa anomalia tutta italiana costituita dalla non separazione della carriere. L’esempio da seguire è quello degli ordinamenti occidentali, nei quali, in forme diverse, è generalmente assicurata la netta distinzione tra le funzioni e le carriere degli inquirenti e quella dei giudicanti. Nei regimi democratici e liberali occidentali, la regola è quella della separazione. Occorre però anche evitare la dipendenza del pm dal potere esecutivo, esclusa anche dalla Costituzione italiana. Il caso portoghese mostra che ciò è possibile. Esso è probabilmente perfezionabile con una statuizione costituzionale dello status giurisdizionale del pm e del suo conseguente obbligo ad attivarsi nella ricerca delle prove a discarico degli indagati.
La gran parte delle motivazioni degli oppositori alla separazione delle carriere in Italia sembra frutto di una ideologia che non si confronta mai con la realtà dei fatti e che mira a conservare in Italia l’ordinamento anomalo del pm, diventato nel tempo di fatto una sorta di piccolo sovrano assoluto (legibus solutus). È ormai innegabile che negli ultimi decenni più che alla cultura della giurisdizione e all’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, i pm hanno badato piuttosto all’estensione dei loro ambiti e dei loro poteri, fino a costituire un quarto potere (o contropotere) superiorem non recognoscens e di fatto non controllato e limitato da alcun altro potere dello Stato. L’ideologia del partito dei pm opposta alla separazione delle carriere sembra nascondere il vero obbiettivo eminentemente politico: quello di voler conservare con la carriera unica, soprattutto il suo strategico potere di influenza sulla magistratura giudicante, ergendosi così a rappresentante dell’intera magistratura e a un ruolo improprio di contropotere rispetto a tutti gli altri poteri dello Stato. Un contro-potere che si è mostrato capace persino di selezionare la classe politica dirigente, esprimendo persino veti verso questo o quel leader politico, senza avere la legittimazione della rappresentanza e restando al riparo nella botte di ferro di una quasi totale irresponsabilità verso ogni altro potere dello Stato.
Aggiornato il 08 luglio 2020 alle ore 10:25