Torna Un giorno in pretura. Roberta Petrelluzzi: “L’Italia? Un Paese giustizialista”

Orecchini di perle, foulard e cartellina in mano. Sono questi i tratti che contraddistinguono Roberta Petrelluzzi, storica ideatrice e conduttrice di Un giorno in pretura, programma di Rai 3 che da oltre trent’anni racconta le vicende più buie che hanno segnato la storia di questo Paese. E che da domenica 3 maggio tornerà in onda con una nuova stagione in prima serata. Il mostro di Firenze, Mani pulite, il massacro del Circeo, la strage di Erba, il caso Cucchi, sono soltanto alcuni dei grandi processi che il programma della terza rete pubblica ha raccontato nel trentennio di messa in onda. “Il processo che più mi ha colpito? Quello sull’omicidio di Sarah Scazzi, con due donne che si trovano a scontare la pena dell’ergastolo tra tanti dubbi.” E sulla polemica di questi giorni per i boss mafiosi scarcerati: “Una bagarre inutile, sembra sia stato liberato Totò Riina con la licenza di uccidere. Siamo un Paese giustizialista”.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Un giorno in pretura?

Sarà una stagione ricca di processi di grande attualità che aiuteranno a raccontare l’Italia in tutte le sue sfaccettature. Inizieremo nella prima puntata con il processo che vede protagonista un personaggio popolare come Gina Lollobrigida. Ma parleremo anche di vicende meno note, come il caso del suicidio di una ragazza a Palermo avvenuto in un quartiere popolare, in un contesto molto difficile. Poi il caso di Gloria Rosboch, l’insegnante uccisa dal suo ex studente. Emergeranno, come sempre, spezzoni di vita tratti dai diversi spaccati della nostra società.

Ci saranno delle novità particolari?

La vera novità di questa stagione sarà che i processi si esauriranno tutti nella medesima puntata.

Come è cambiato il format rispetto alla prima puntata del 1988?

È cambiato moltissimo. Se si guarda una puntata del 1988 risulta irriconoscibile rispetto alla costruzione e alla narrazione di quelle di oggi. Prima l’approccio era molto più notarile, seguivamo con le telecamere la ritualità del processo. Con il tempo abbiamo cominciato ad entrare nel merito delle cose, a raccogliere la voce dell’accusa e della difesa, a cercare di capire e spiegare quelli che sono i meccanismi che ruotano attorno a un’aula di tribunale. Ma soprattutto a svelare cosa si nasconde nella natura profonda degli uomini.

Secondo lei il successo di questo programma è dato anche da un interesse morboso che l’opinione pubblica nutre per la cronaca giudiziaria?

Non lo definirei un interesse morboso, rifiuto questo termine. Secondo me un omicidio, una tragedia, un qualsiasi caso di cronaca nera colpiscono profondamente le coscienze di ognuno di noi. Umori e sensazioni si fanno molto profondi portandoci all’attenzione, al voler sapere, conoscere. Spesso un processo ci aiuta a capire l’andamento di ciò che ci sta intorno. Ci “attrezza” a conoscere l’uomo, le sue passioni, le sue debolezze.

Lei non è solo conduttrice ma anche autrice e regista. Come riesce a conciliare questi ruoli?

Siamo un equipe fantastica, una redazione veramente affiatata dove tutti partecipano e contribuiscono a un pezzo importante del programma. Posso dire che la longevità di Un giorno in pretura è dovuta anche alla grande capacità di essere un vero gruppo di lavoro.

Si può dire che il processo Mani Pulite ha contribuito ad affermare questo programma?

In realtà gli anni di Tangentopoli non sono stati un vero e proprio spartiacque sotto l’aspetto dell’affermazione del format, anche se gli ascolti che riscontrammo in quel periodo furono incredibili. È stato il racconto di un pezzo d’Italia che il programma ha fotografato e testimoniato. Basti pensare che il discorso di Bettino Craxi in tribunale, inquadrato da solo per un’ora, ha tenuto incollati milioni e milioni di italiani. Per la tivù di oggi è inimmaginabile, tutto è più veloce, lo zapping si è impossessato di noi.

Cos’è cambiato rispetto a quegli anni?

Prima le persone volevano sapere, capire. Adesso si ragiona più con la pancia, si cede ai pregiudizi. Diciamo che la valutazione attenta e la riflessione dei fatti è una merce molto rara al giorno d’oggi.

Qual è stato il processo che più l’ha colpita?

Quello che più mi ha appassionato e allo stesso tempo lasciato grande dispiacere è stato il processo sull’omicidio di Sarah Scazzi.

Perché?

È stato un processo che ha subito profonde modifiche dovute a elementi esterni. Il piccolo paese di Avetrana d’un tratto era diventato New York e quando si creano contesti e situazioni del genere è molto difficile, se non impossibile, riuscire ad avere dei testimoni liberi.

Pensa quindi che la sentenza di condanna all’ergastolo nei confronti di Cosima Serrano e Sabrina Misseri non renda giustizia?

Ho molti dubbi su quella sentenza, credo fortemente all’ipotesi dell’errore giudiziario.

Cosa la differenzia dai programmi e dallo stile di Franca Leosini (Storie Maledette) e Federica Sciarelli (Chi l’ha visto?)?

Loro sono semplicemente più brave di me. Io non vengo mai a contatto diretto con vittime e carnefici, resto sempre distante. Quando vado in onda sono solo in compagnia della telecamera e della mia cartellina.

Sul caso di Marco Vannini si è trovata al centro di una grande polemica per aver difeso Martina Ciontoli dagli attacchi dell’opinione pubblica. Si è pentita?

No. Secondo me in situazioni come quella dell’omicidio Vannini i soli ad avere il diritto di urlare e provare rabbia sono i familiari del ragazzo, la madre in primis. Tutto il resto dell’opinione pubblica si lascia soltanto trascinare dall’emozione dentro fatti che sono difficilissimi. Nessuno è più disposto a ragionare, è lo specchio dei nostri giorni a cui per fortuna non appartengo perché la mia formazione è totalmente diversa. Credo che ognuno debba sempre considerare la pietà verso chi sbaglia, verso l’altra persona, le sue ragioni.

Siamo un Paese giustizialista?

Sì, sicuramente. Le persone preferiscono dare giudizi netti, è una facile scorciatoia. Le sfumature sono molto più difficili da cogliere perché ci costringono a perdere troppo tempo. Pretendiamo invece tutto, subito e con facilità. Chi ha molti contatti con le vittime è impossibile che non ne sposi la causa, diventa una cosa naturale perché ti affezioni. Vedi una mamma soffrire e piangere ed è umano rimanere coinvolti, schierarsi dalla sua parte. Però bisogna anche capire la realtà complessa e sfaccettata, ricca di spigolature e dettagli in più.

Come sta trascorrendo questa quarantena?

Bene, diciamo che sono molto fortunata. Vivo in una casa molto grande con un terrazzo e non ho le preoccupazioni economiche che molti italiani purtroppo hanno in questo difficile momento. E poi impiego il mio tempo lavorando, quindi non mi posso certo lamentare, sarei una donna da poco se lo facessi.

Molti hanno paragonato la condizione di quarantena che stiamo vivendo agli arresti domiciliari. È d’accordo?

Mi sembra un paragone improprio. Vuol dire non comprendere cosa sia davvero la carcerazione domiciliare.

Pensa che questa emergenza abbia insegnato agli italiani a immedesimarsi con chi vive agli arresti?

Non credo. Perché siamo un popolo duro a capire. Ne abbiamo avuto la dimostrazione anche in questi giorni, con le grandi polemiche che si sono sollevate sulla scarcerazione di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Ne è nata una bagarre assurda per niente. In un caso specifico si tratta di un uomo anziano e gravemente malato al quale restavano soltanto nove mesi da scontare in carcere. Capirai. Quel magistrato ha fatto bene a concedergli gli arresti domiciliari. Gran parte delle persone, invece, ha reagito come se fosse stato scarcerato Totò Riina con la licenza di uccidere.

Aggiornato il 30 aprile 2020 alle ore 11:55